Il Telegrafo del 31 luglio 1936
Dalla capitale eritrea alla tana del leone di Giuda (III parte)



( III )


Poco prima di mezzogiorno lasciamo Enda Madani e ci apprestiamo a valicare Amba Alagi. Abbiamo atteso a partire perchè l'acqua, caduta abbondantemente in nottata, ha reso difficile e pericolo il transito su per le pendici dell'amba. Ma il sole, vinto lo spesso strato di nubi, che tra poco saranno definitivamente fugate dal vento, è venuto a prosciugare il terreno ed a permettere di viaggiare con tutta sicurezza.
Salutati i concittadini, partiamo per la terza tappa di questo interessante viaggio. Attraversati i pochi chilometri di pianura, l'autocarro si inerpica lungo la camionale incassata tra roccie e macigni.
Per un paio d'ore continua l'ascesa. Il motore sbuffa ma batte regolarmente. I più duri dislivelli sono superati dalla meravigliosa macchina italiana, che costruita per viaggiare sulle strade asfaltate della Patria, sta compiendo, al pari degli uomini, il miracolo del facile adattamento al clima e alle asperità delle ambe africane.
La strada costruita dai fanti e dagli operai, mentre ancora si combattevano le ultime battaglie della guerra, si snoda a spire attraverso erte durissime, sfiora burroni, rasenta precipizi, segue per chilometri e chilometri l'orlo di ampi valloni, e, lentamente ma sicuramente, raggiunge il "Passo Torelli", alla destra del picco più alto del monte.
Di quassù, nei pochi momenti di sosta per le consuete formalità al posto di blocco, possiamo godere il magnifico spettacolo di un panorama incomparabile. Dietro di noi, la valle di Alagi, punteggiata qua e là dalle tende militari, si presenta come un immenso tappeto verde, marchiato in alcuni punti dalle masse oscure dei boschetti di sicomori. E più avanti, oltre la cerchia di basse colline e di declivi boscosi, la piana di Selicot sembra un immenso lago dalle acque limacciose, ai limiti del quale, pari ad una socgliera invalicabile, si erge la mole nerastra dell'Aradam.
Davanti ai nostri occhi, giù per il versante sud delle montagne e più in basso dove il terreno si perde in ondulazioni, è tutta una fioritura di villaggi indigeni, di pascoli, di piantagioni fiorenti e di folte boscaglie i primi, e le seconde tagliate in lungo e in largo da rivi e torrenti, che scendono rumorosi dai canaloni montani per poi adagiarsi a scorrere placidamente là dove il terreno è meno impervio.
Rapido, quasi al pari delle acque, l'autocarro, valicato il passo, discende verso la valle.La discesa è meno lunga e difficile dell'ascesa. La strada, sempre sepreggiando, segue una linea meno tortuosa e le curve, tutte a monte, possono essere affrontate con sicurezza. Lasciata alle spalle l'amba, proseguiamo verso Mai Ceu, attraverso una regione ora pianegiante ora montuosa, ma sempre ricca di vegetazione e cosparsa di villaggi.
Mai Ceu, il villaggio che fu teatro del vittorioso combattimento contro i primi scaglioni della defunta guardia imperiale, è il primo villaggio "galla" che attraversiamo. Notiamo subito la differenza dei costumi degli abitanti. I "galla", se differiscono poco nel fisico dagli altri "amara", si fanno distinguere per la diversità dell'abbigliamento. Tutti, uomini, donne e bambini, portano sulle spalle, a mo' di manto, una pelle di capra, che sostituisce il logoro e, sovente, sporco sciamma degli altri indigeni.
Dediti all'agricoltura ed alla pastorizia, i "galla", siano essi mussulmani o copti, fanno mostra di una fierezza e di un si' spiccato orgoglio di razza, ben rari nelle altre genti etiopiche, eccettuati s'intende gli scioani. Forti soldati, come sono rudi lavoratori, essi posero in fuga le disordinate orde di Mulughietà, resti della potente armata dell'Endertà; e furono ancora i "galla" che dopo i combattimenti di Mai Ceu e dell'Ascianghi colpirono ai fianchi le fuggiasche schiere scioane, gli odiati nemici della loro razza. Odiati e nemici perchè per decenni continui, senza ombra di umanità, avevano ridotto in schiavitù e vessando nella maniera più barbara un popolo di agricoltori e pastori, che null'altro chiedeva all'infuori di sfruttare in pace quella terra che la generosità divina aveva loro concesso.
Dai Mai Ceu all'Ascianghi si viaggia attraverso una serie continua di lievi dislivelli. Le colline si susseguono alle piccole ambe. Per una, due, tre ore. Finalmente un'ascesa più lunga, più dura e poi, dall'alto, il lago si presenta ai nostri occhi ammirati.
Incassato tra le montagne che lo cingono alle due estremità, lo specchio d'acqua si libera al centro della stretta per spandersi nella verde, immensa pianura.
E' il tramonto quando giungiamo nei pressi del lago. La camionale passa a nemmeno cinquecento metri dalla sponda destra. Per una buona mezz'pra la macchina corre veloce tra le alte erbe che nascono nella piana di Ascianghi. Il sole cadente tinge le acque di vermiglio. Di tanto in tanto un colpo di vento fa ondeggiare la massa liquida, che sussulta, rumoreggia, e così rossastra com'è sotto i riflessi del sole, appare simile ad una gettata metallica nel crogiolo della fusione. I pastori e gli agricoltori, terminata la giornaliera fatica, vanno verso le capanne. Gli uni spingendo innanzi le mandire di zebù ed i greggi di capre belanti, gli altri portando a spalle gli strumenti del lavoro e recando in cestelli di vimini i frutti di questa terra generosa.
Lenti, a lunghe file, passano ai margini della strada i coloni "galla". Cantano una canzone piena di sentimento e di musicalità. Non ne comprendiamo le parole, ma la musica la "sentiamo" e la gustiamo, anche se i battiti del motore rompono un pò la pace della sera che scende.
I pastori, montati su focosi cavallini, incitano le loro bestie e spingono gli armenti modulando un "Uooau!" prolungato e sommesso, come ad accompagnamento della nenia degli argicoltori.
La macchina corre, come sempre, ed il motore, ridendosi della musica, del sentimento e del tramonto, pulsa forte, sbatte, sbuffa e lancia nere fumate, che salgono in alto per confondersi cn le nubi che già affiorano all'orizzonte.
E' notte, quando giungiamo a Quoram. Un salto alla cantina per una frugale cena e poi i capannoni del Comando base ci ospitano per il riposo notturno.
Un giorno di sosta tra il villaggio indigeno e l'accampamento militare è inevitabile. Sono gli elementi che ci costringono a ciò. La pioggia, cominciata a cadere in nottata, si fa viva a sprazzi anche in giornata. Di tanto in tanto il cielo si rannuvola, il vento si calma e la musica ha inizio.
Se non propriocome eravamo ormai rassegnati a vederle e a subirle, queste "grandi piogge" sono innegabilmente degli uragani tremendi e violenti, come ben raramente se ne hanno in Italia. Dapprima lentamente e in silenzio, quasi volesse chiedere il permesso, poi con violenza ed accompagnata da raffiche di vento, l'acqua cade a torrenti per delle mezz'ore e talvolta per delle ore continue. Poi, tutto si calma, il sole torna a splendere e quando il terreno sta per asciugarsi e quindi per lasciar via libera alle macchine...ridaccelo! Ciò, ben inteso, non sempre. Normalmente Giove Pluvio invia i suoi messaggi nel primo pomeriggio, ma sovente si fa vivo anche in ore non regolamentari ed allora son guai. Guai come quelli che hanno prolungato la nostra permanenza a Quoram e, conseguentemente, ritardato di una giornata l'arrivo a Uoldia.

(continua)


Dino Corsi