Il Telegrafo del 28 giugno 1936
Riposo a Macallè ed incontro con il vecchio amico Ailù Michael

L'avevo conosciuto, Ailù Michael, nel febbraio scorso, nella piana del torrente Gabat. Eravamo alla vigilia della grande battaglia dell'Endertà. La banda di Ras Gugsà era giunta da poco in linea e bivaccava in attesa di prendere posizione. Con pochi camerati della "23 Marzo" mi ero internato nel cuore dell'accampamento per conoscere da vicino i guerrieri di Macallè, che a distanza di poche dovevano dare la prima grande prova del loro eroismo.
Ailù Michael - un pezzo di diavolo nero alto un buon metro e ottanta - se ne stava curvo su un focherello, acceso tra due pietre con pochi sterpi secchi, e preparava il the. Ci offrì una tazza della calda bevanda. Accettammo, contraccambiammo con sigarette e simpatizzammo subito.
Il gigante nero fu di una cordialità e gentilezza senza pari. In un italiano imperfetto, ma abbastanza chiaro, rispose alle nostre domande e ci disse di sè, della sua vita, della sua famiglia. Aveva già servito l'Italia per cinque anni, in Liba come ascaro: orgoglioso, ci mostrò il suo foglio di congedo, esclamando: Sempre taliano io, mai bissino!
Ci lasciammo da buoni amici, con l'augurio di trovarci nell'Aradam al momento del combattimento. Pochi giorni dopo seppi che era stato ferito e mi recai a trovarlo all'ospedale da campo. La mia visita lo commosse, tanto che pianse dalla gioia. Volle che accettasi da lui un piccolo ricordo, una crocettina copta in argento, che si staccò dal collo e che mi consegnò dicendo: "Tu guaitana, mio grande amico. Croce cristiana porterà a te bene e fortuna, Ailù Michael tuo amico sempre!". Mi abbracciò e, segno di amicizia incancellabile, mi baciò dietro l'orecchio destro. Ci lasciammo con la promessa di vederci ancora ed ognuno seguì la sua via: io quella del Tembien, lui quella attraverso i vari ospedali da campo.
Il tempo e gli avvenimenti mi avevano fatto dimenticare Ailù Michael. Ma tornata la divisione al vecchio campo di Enda Jesus per un periodo di riposo, mi son visto comparire il mio amico, venuto dalla città fin su all'accampamento per cercarmi.
- Saputo stare qui "23 Marzo" e detto essere anche mio amico. Venuto a salutare e invitare mio tucul. Va bene?
Come non può andar bene e come no si può accettare un invito fatto tanto spontaneamente? Chiedo ed ottengo un breve permesso e partiamo.
Ailù Michael, premuroso e previdente, ha condotto seco due arzilli muletti. E le cavalcature ci risparmiano la sosta per l'attesa di un automezzo al posto di tappa. Strada facendo il mio amico mi narra le sue avventure di guerra; ed è uno spasso ascoltare le sue narrazioni, fatte con un linguaggio strano e fiorito e ricche di episodi gustosi, strani ed interessanti.
La strada passa senza che ce ne accorgiamo. Traversiamo la piana, discendiamo la collina dal lato del campo di aviazione e ci troviamo in città senza quasi avvedercene.
Sono le tre del pomeriggio. L'abitato è quasi deserto. Il sole cocente ha confinato gli indigeni nelle capanne, gli europei nei baracconi e le piazze e le viuzze, bianche di polvere e di luce, sembrano quelle di una cità morta.
Ma di tanto in tanto un'ombra esce da un tucul; uno sciamma sventola per alcuni istanti sulla strada, un uomo passa e scompare.In silenzio, come un fantasma. E poi è la volta di un'auto a rompere la solitudine, e con la solitudine il silenzio. Prepotente, il motore romba, la macchina passa veloce e solleva una nuvola di polvere, come a ricordare che la città vive e vive una vita veloce, moderna, italiana.
Dall'alto delle mura screpolate, le merlature del palazzo imperiale appaiono come una vecchia e sconnessa dentiera sorridente di gioia. Gioia per il miracolo che si compie, gioia per la città che rinasce.
E tuto rinasce, tutto rivive a Macallè. L'Impero Romano ha qui piantato le sue potenti radici e qui si vedono già le prime tracce della civiltà fascista. Non solo le strede, chè il miracolo delle vie di comunicazione si compiuto ovunque con l'avanzar delle truppe, ma le costruzioni edilizie, la rete telegrafica e telefonica, impianto perfetto con modernissimi pali metallici, i servizi sanitari ed igienici, gli ospedali, le scuole, i negozi, le officine, i cantieri, tutte le altre manifestazioni del lavoro e del progresso hanno fatto di Macallè un centro di prim'ordine, un punto di partenza per le future conquiste dell'Impero nel campo delle opere di pace.
La città riposa e tutto è fermo. Ma tra poche ore la vita riprenderà il suo ritmo travolgente, gli uomini torneranno alle loro fatiche, le macchine alle loro opere, su Macallè si leverà potente l'inno del lavoro, e fin dai più lontani "tucul" gli indigeni usciranno epr unire la loro fatica a quella degli uomini bianchi. Perchè a Macallè gli indigeni che non sono soldati hanno compresa l'utilità e la nobiltà del lavoro. E lieti e fieri, chinano le schiene, muovono le braccia e provvedono a sè stessi e ai loro figli con il sudore della fronte. E con il lavoro fino a ieri sconosciuto o sfuggito, nobilitano la loro Patria e si rendono uomini, uomini come noi, come tutti, e non esseri bestiali come lo furono fino al giungere dei soldati d'Italia, apportatori, con la civiltà e la libertà, del dono più bello: il lavoro.
Ailù Michael abita in una delle viuzze secondarie , che si partono dalla grande piazza di Macallè per perdersi lontano verso la piana. Entriamo, con il mio ospite, in un "tucul" ampio e discretamente arieggiato.
Una donna è intenta alla confezione della "borghutta". China sul mastello di pietra, impasta farina di dura e legumi con acqua. Il sudore che le cala dalla facia, della fronte e dal petto scoperto si mischia e si integra con l'impasto. Impassibile al nostro entrare, la massaia indigena prosegue in silenzio la sua fatica; le mani nere si muovono con rapidità tra la pasta bianca; ed il sudore, che a gocce cade nel mastello, sembra, ed è, il contributo di fatica dato al pane cotidiano.
- Quella è la mia donna, mi dice Ailù Michael. E dice "la mia donna", come direbbe il mio somaro, la mia giovenca...Nessuna meraviglia, perchè, purtroppo, la donna, la sposa, è per gli indigeni poco più o poco meno di un qualsiasi animale domestico. le sue mansioni, in seno alla famiglia, oltre a quelle naturali di madre, sono da serva e da persona di fatica. Lavora, la donna indigena, per sè, per i figli e, non di rado, per lo sposo.
Oltre alle faccende domestiche, provvede al bestiame ed al lavoro del piccolo appezzamento di terra, che ogni famiglia indigena possiede nei pressi del "tucul". Da ciò, da questo ammasso di mansioni domestiche ed extra domestiche, deriva il disinteressamento della madre per i figli. Ed i piccoli, privati dell'assistenza materna ed abbandonati a sè stessi, appena sono in condizioni di reggersi in piedi da soli, crescono come possono e come vogliono.
L'amico mi invita a sedere su di uno sgabelletto rudimentale fatto di tronchi di sicomoro. Mi accomodo meglio che posso sul primitivo sedile e giro gli sguardi intorno.
Le pareti della capanna - pietre rozze, murate con sterco animale - sono qua e là tappezzate da pagine a colori dei giornali illustrati italiani, raffiguranti episodi della guerra. Mi vien fatto di pensare alle botteguccie dei nostri ciabattini e sorrido al pensiero.
Tra le altre illustrazioni, sono in vista i ritratti del Re, del Duce, di Badoglio, di Graziani, e al opsto d'onore, quello di Ras Gugsà. In alto, nella parete di centro, il crocifisso copto. Il tutto messo là senza ordine e confuso ed intramezzato con i pochi arredi domestici che pendono da chiodi piantati nel muro: otri in pelle di zebù, zucche secche in funzione di vasi, cestelli e panierini di vimini e stracci che una volta furono bianchi pendono dalla parete tra la pagina della "Domenica del Corriere" con la conquista di Macallè, e quella della "Tribuna Illustrata" con la battaglia dell'Amba Aradam e tra l'effige di un personaggio celebre ed il massiccio crocefisso in metallo bianco.
L'ospite mi offre una tazza di idromele. Accetto per pura cortesia ed a stento butto giù l'aspra bevanda alcoolica, fatta con miele fermentato.
Usciamo all'aperto. Tra il "tucul" ed il muro di cinta della strada sono pochi metri di spazio libero. Due piante di pepe, due cespugli di fichi d'india ed un ciuffo di canne di bambù sono tutta la vegetazione del giardino del mio ospite.
Tra le piante corrono e cinguettano alcuni piccoli moretti. Sono i figli di Ailù Michael. cinque marmocchi seminudi, che scorgendo il babbo e il forestiero, interrompono i loro giochi e si fanno a noi dappresso.
- Buon giorno, guaitana!
Cinque vocettine, soavi e fresche mi salutano in un italiano perfetto.
- I piccoli, spiega il mio amico, vanno a scuola e parlano bene l'italiano. E cantano canzoni fasciste italiane.
Ad un cenno del padre, i cinque diavoletti si accingono a darmi la prova delle loro qualità canore.
Improvvisamente, mi sembra di essere trasportato in una delle nostre aule scolastiche, in mezzo ad una schiera di "balilla". Un canto limpido e chiaro esce dalle ugole dei moretti, un canto italiano, fascista:

Fuoco di Vesta
che fuor dal tempio erompe...


Gli occhi dei balilla neri luccicano, brillano di una luce vivida. Quella loro voce è un fuoco di entusiasmo, una promessa ardente. La promessa di un domani non lontano, quando i diavoletti saranno uomini forti e laboriosi operai, o bravi agricoltori, o fedeli soldati di quell'Impero, che la volontà di un popolo forte ha eretto, a trionfo e gloria della civiltà e del diritto, sulle rovine di un simulacro di stato barbaro e schiavista.


Dino Corsi