Il Telegrafo del 20 febbraio 1936
Gli abissini visti ad occhio nudo

Piano di Gabat Calamino', gennaio
Il cannone ha ripreso a tuoonare, o meglio, ha ripreso a tuonare con insistenza, giacche' tacere non si era mai taciuto. Giorno e notte, a intervalli quasi regolari, le batterie da 105 e da 149 hanno fatto udire la loro voce e il miagolio dei proiettili, lanciati nella traiettoria sopra le nostre teste, ha rallegrato per piu' giorni i nostri cuori e portato, nella quiete dei giorni successivi al combattimento, una nota bellica e guerriera tra i campi e le ridotte e giu' per i valloni e su per le ambe e le colline.
Ma da alcune ore, cannoni e obici, non conoscono riposo. Un tiro, un altro, poi ancora un altro, e via di seguito senza interruzioni e senza soste. I proiettili passano e fischiano: miagolano e si perdono lontani. E dopo poco, come a far eco agli scoppi di batteria, che risuonano alle nostre spalle, ecco le granate che esplodono fragorosamente davanti a noi. E laggiu' nella valle, lontano alcuni chilometri, si vedono alzarsi colonne di fumo, di fuoco e di polvere.
Quasi sempre il bombardamento precede il combattimento, specie quando i "pezzi" lavorano per ore e ore, senza riposo. Ed infatti si prevede che domani la "23 Marzo" fara' un nuovo sbalzo e con tutta probabilita' dovra' sostenere ancora un urto con il nemico. Si dice che una forte colonna abissina avanza verso le posizioni, si dice che il nemico e' numeroso, ben armato e terribile, si dice tutto cio' che si puo' dire e che dice la "radio del fronte" in queste occasioni, ma non si nascondono e nessuno si sogna di nascondere la piu' bella sicurezza e la serena fiducia in un nuovo successo.
Le armi, gia' temprate con il sangue, sono quelle di ieri e pure quelli di ieri sono gli uomini e sli animi. Se i bollettini del fronte hanno anche una reale e minima parte di verita', domani dovrebbe fare nuovamente caldo e il concerto delle artiglierie, inizitosi da poche ore dopo tanti giorni...di pace, dovrebbe ben presto essere seguito da quello delle bombarde, delle mitragliatrici, dei boschetti e delle bombe a mano.
Le Camicie Nere, tutte le Camicie Nere, sono pronte alla prossima prova. Il ricordo non lontano dei tre giorni di battaglia, non e' ancora svanito, ma rimane in tutti e in tutti e' vivo il desiderio di poter quanto prima tornare al posto di combattimento e trovarsi nuovamente a tu per tu con i nostri avversari. Tanto piu' che ormai...

...gli abissini si conoscono
Si sono imparati a conoscere questi terribili guerrieri, e pure essi hanno fatto la nostra consocenza. Non so quale impressione i legionari della "23 Marzo" abbiano fatto ai soldati del Negus, ma certo non bella, ne' troppo attesa.
Avevamo letto e riletto una infnita' di articoli riguardanti l'esercito etiopico e il sistema di combattimento di questi barbari. E, stando alle impressioni di questo e di quel corrispondente, e stando ai racconti delle guerre del passato, si era radicata in noi la convinzione dell' "esercito senza capi", delle "masse portate insconsciamente al macello", e dei "branchi di pecore umane". Quanta differenza tra l'esercito descrittoci dagli scrittori del passato e anche da tanti del presente, con quello che realmente e' oggi l'esercito del Negus.
E' vero che i nostri avversari hanno tutto da imparare da noi in fatto di guerra manovrata e di servizi logistici, ma e' innegabile che anch'essi, anche queste orde di selvaggi, hanno una loro strategia e un sistema di combattimento, che particolarmente su di un terreno accidentato come lo e' il campo delle nostre operazioni sul fronte eritreo, fanno sentire il loro peso e influiscono non poco sull'esito del combattimento.
Se la guerra di imboscata e' sempre preferita dagli abissini, anche nella battaglia a campo aperto i soldati di Sellassie' non rifuggono dai loro sistemi ormai tradizionali e tanto efficaci alla resi dei conti. Gli armati di Ras Mulughieta', che nei giorni scorsi cozzarono contro le linee tenute dalla "23 Marzo" (una colonna fortissima, con artiglieria e cavalleria), tentarono la sorpresa e in un primo momento si lanciarono in massa contro le nostre posizioni, prestandosi , sia pure per pochi minuti, al giuoco delle mitraglie pesanti e della piccola artiglieria da montagna, efficaci quanto mai di fronte alla massa compatta di uomini che avanzava alla nostra volta.
Ma vista fallire la sorpresa e compresa l'inutilita' dei loro attacchi, gli etiopici - contrariamente a quanto...la tardizione poteva far prevedere - non insistettero e sparpagliatisi per la piana, iniziarono il loro giuoco, consistente nel molestamento continuo ai nostri reparti e in una sparatoria continua e nutrita.
E se la nostra posizione sul ciglione delle ambe - vero fortilizio naturale - era quanto di meglio si potrebbe desiderare per la difesa di fronte a qualsiasi attacco, quelle degli abissini si prestava mirabilmente al sistema di combattimento da loro messo in pratica. A valle - una valle immensa - nascosti dai cespugli di mimose spinose e da ammassi rocciosi, rintanati qua e la' in grotte e caverne scavate nella roccia, per altri due giorni le armate avversarie hanno fatto fuoco contro i nostri, che dall'alto della loro posizione dominavano, e' vero, la piana, ma dovevano far miracoli di attenzione e precisione per scovare e stanare il nemico.
Dopo il primo, gli attacchi nemici sono stati rari e sporadici. Diretti generalmente contro posti avanzati e perche' meno protetti, gli assalti non si sono effettuati in massa. Per otre o quattro volte un centinaio di uomini uscti non si sa da dove sono corsi verso le nostre mitraglie con l'intento di impossessarsi delle armi. E sono corsi non come un branco di pecore, ma come dei soldati istruiti modernamente. A gruppi di due o tre o a scacchiera hanno avanzato verso le mitraglie, sfruttando tutti i ripari naturali, strisciando sul terreno e facendo miracoli di agilita' per non essere colpiti. E, volta volta, giunti a trenta o quaranta metri dall'obbietivo, il balzo finale, l'assalto propriamente detto.
Tanta era la precisione di questi movimenti, tanto be studiate le manovre, che piu' dei barbari guerrieri mi pareva veder operare, in una delle normali tattiche, uno dei nostri reparti di fanteria.
Oltre per l'attuazione dei moderni sistemi di guerra, gli abissini ci hanno impressionato per il loro coraggio e la loro resistenza fisica. Uomini alti e aitanti, tutti nervi e muscoli, hanno combattuto bene - il riconoscimento e' doveroso - e sia attaccando che difendendo sono stati all'altezza della loro fama di prodi guerrieri. E nei movimenti, negli spostamenti rapidi e nei balzi continui tra questo e quel cespuglio e tra questa e quella roccia, si sono dimostrati fisicamente a posto e in condizione di poter chiedere qualsiasi sforzo ai loro snelli corpi.
Armati modernamente ed equipaggiati come ogni soldato di oggi vestiti all'europea, non senza alcuni segno di ricercatezza, gli abissini formano un esercito vero e proprio.
In conclusione, un nemico che e' bello combattere, perche' il soldato italiano - anche nelle guerre coloniali e contrariamente ai sistemi di tanti colonizzatori europei - ama sempre trovarsi di fronte degli avversari forti e terribili. Giacche', soltanto se opposto ad un nemico potente, il soldato italiano puo' dare la misura del suo valore e dell'eroismo della razza nostra, della razza che non ha uguali al mondo.

Pallottole "dum-dum" e farina di grano
Dopo il combattimento, quando gia' i battaglioni avevano operato il balzo che doveva darci il possesso della piana, fu iniziata l'azione di rastrellamento della zona occupata.
In lungo e in largo, i reparti percorrvano i sentieri e le mulattiere, si internavano tra il groviglio della vegetazione e nell'interno delle grotte per assicurarsi della scomparsa di ogni pericolo. All'ingresso di una delle tante caverne, scavata nella roccia, una pattuglia si vide venire incontro due abissini, due dei pochi scampati ai nostri colpi.
A mani alzate si avvicinarono ai nostri soldati, gridando il saluto rituale: "Salam Guaitama!", si inchinarono fino a baciare la terra. Disarmati e condotti al Comando di legione furono interrogati da uno degli ascari che funzionava da interprete. E si apprese cosi' che erano padre e figlio, che si trovavano nella caverna da molte ore, che avevano partecipato alla battaglia e...che avevano fame. Fame, tanta fame.
Non si stette nemmeno a pensare se era giusto o meno dare da mangiare a chi, solitamente, uccide e strazia i prigionieri. Due uomini, seppure nemici, avevano fame. Che si sfamassero dunque! E furono condotti verso una delle prossime cucine. Qui giunti i due abissini non stettero a fare eccessivi complimenti. Scorto un sacco, colmo a meta' di farina di grano, che da un lato faceva bella mostra del suo contenuto, il padre, subito seguito dal figlio, si slancio' - dico si slancio' - verso questo e tuffo' le mani nel sacco ritraendole piene di farina. E, sanza far parola, i due...uomini, simili a bestie, simili a lupi, si dettero a divorare la farina, cosi' come era, cruda e asciutta.
Dopo pochi minuti le loro facce erano maschere in bianco-nero; maschere ridicole, ma serie e, se si vuole, un tantino tristi.
Nel portare la farina dal sacco alla bocca, i due abissini lasciavano di tanto in tanto cadere involontariamente alcuni granelli della preziosa polvere. Cadendo, la farina andava a posarsi sulle cartucciere, impolverando i proiettili ivi contenuti. Che erano proiettili "dum-dum".
E la farina di grano sopra le pallottole "dum-dum" formava un contrasto stridente, il contrasto che e' fra il bene e il male.
Da una parte le cartuccie micidiali e avvelenate, che non perdonano, dall'altra il piu' ricco, il piu' santo prodotto della terra: morte e vita.
Due prodotti, quello della morte e quello della vita, venuti entrambi dall'Europa. Due prodotti, che da soli, possono dire al mondo da dove di parte il male e da dove il bene.
Londra e Roma: pallottole "dum-dum" e farina di grano.

Dino Corsi