Il Telegrafo del 26 luglio 1936
Dalla capitale eritrea alla tana del leone di Giuda (II parte)


( II )



Santa caterina da Siena

A circa 40 chilometri da Adigrat, dove la strada biforca per proseguire con il suo ramo principale verso Macallè e con quello secondario verso la impervia zona del Tembien, teatro delle gesta gloriose e del sacrificio dei legionari della "28 ottobre" e del "Gruppo Diamanti" prima e di quelle della camicie nere della "23 Marzo" , dei fanti e degli artiglieri della "Sila", degli alpini della "Custeria" e delle fiamme gialle della R.G. di Finanza, poi, è Enda Teclaimenot, la località ove per cento giorni sorse quel modello di ospedale da campo, che era il "185 - Benito Mussolini", diretto dall'On.le Giorgio Alberto Chiurco.
Per oltre tre mesi, il Deputato senese, il chirurgo in divisa militare, il capo spirituale dei volontari senesi, ha qui svolto la sua opera di bene e di umanità. Giorno e notte, nei momenti in cui fermeva la battaglia, l'Ospedale "Mussolini", mercè la volontà del Direttore, ha funzionato come non era nemmeno lecito sperare. Le operazioni più difficili, gli interventi chirurgici più ardui, tuto quanto insomma si sarebbe potuto effettuare in una delle meglio attrezzate cliniche d'Italia, è stato miracolosamente effettuato qui, in pieno deserto africano, tra i quattro teli, spesso sbattuti dal vento, di una tenda "Lazio".
E non sempre, meglio, quasi mai la calma e la tranquillità necessarie potevano regnare nell'ospedale. Il pericolo che incombeva sulla Region, gravava tra l'accampamento ospedaliero e molto spesso, mentre il chirurgo operava nella tenda di medicazione, i militari dell'ospedale dovevano impugnare le armi per prevenire sorprese, e, talvolta, per respingere assalti di gruppi avversari.
Soltanto Iddio, l'On. Chiurco e i suoi collaboratori sanno quante vite umane siano state strappate alla morte nell'Ospedale "185". E nessuno saprà mai quanto bene sia stato fatto tra le tende del "Benito Mussolini". Bene ai corpi e bene agli spiriti, perchè mentre la mano o la scienza del chirurgo operavano il miracolo di vincere il male, la fraterna parola pervasa di fede fascista e di grande umanità, dell'uomo politico serviva a rinfrancare gli animi, a riportare la calma nei cuori agitati e di dare agli infermi quel senso di tranquillità, necessario quanto i farmaci.
L'Ospedale "Benito Mussolini" ha da oltre un mese levate le sue tende. Ma l'On. Chiurco ha voluto, che ove sorgevano i candidi rossocrociati baracconi, sorgesse un nuovo segno di bene e di umanità. Un tempio cristiano, dedicato a Santa Caterina da Siena fu eretto dal personale dell'Ospedale, in memoria dei senesi caduti in A.O. E la chiesetta, la prima chiesa cattolica sorta nel territorio etiopico e dedicata alla più italiana delle Sante, alla più santa delle Italiane, è lì, bella nella sua semplicità e di fronte al sanguinoso Tembien a ricordare il sacrificio dei fratelli Caduti e l'opera fatta pur'essa di sacrificio, di un figlio di Siena, che in guerra come in pace, ha voluto e saputo degnamente onorare la Città della vergine e di Santa Caterina.
La macchina che ci porta passa velocemente davanti alla chiesetta. Facciamo segno all'autista di fermarsi, ma egli non bada a noi. E' militare, ha fretta, deve far correre l'autocarro.
Per alcuni minuti vediamo la grigia costruzione piantata su, alla somità del poggettoche guarda la piana ove sorgeva l'ospedale. La vediamo bella, tanto bella, così com'è, piccolina e baciata dal sole, la chiesetta della nostra Santa, il santuario dei nostri morti. I nostri occhi fissano commossi la facciata, la porta chiusa ed attendono che si compia un miracolo, che si spalanchino i battenti, che la Santa scenda dall'altare e ci venga incontro alla testa della schiera degli Eroi...
Ma la macchina vola, la strada ora discende e, lentamente, la schiera scompare ai nostri sguardi.
Non la vediamo più, ma la vedremo ancora. Passeremo di qui quando sarà il momento del ritorno in Patria. E, passando, ogni senese porterà con sè un fiore. Ed i fiori, lanciati dagli autocarri in corsa, cadranno sulla soglia del tempio e saranno tanti fiori, centinaia e centinaia, fiori delle ambe, delle selve, delle pianure e dei sentieri montani. Fiori della nostra fede per la Santa, e per i martiri immolatisi gloriosamente ieri e vivi sempre nel ricordo e nella riconoscenza degli italiani.

Verso Amba Alagi

Giungiamo presto ad Enda Jesus: è da poco mezzogiorno. Salutiamo l'autista, che non prosegue oltre e, dopo aver mangiato due bocconi in fretta, ci mettiamo in cerca di un mezzo di trasporto.
Ancora una volta la fortuna ci assiste. Un autocarro "34" carico di legname da costruzione, sta per partire alla volta di Dessiè. Approfittiamo dell'occasine e ci arrampichiamo su per le tavole e le asi, cercando di accomodarci alla meno peggio e procurandoci dei sostegni contro gli eventuali traballamenti.
Si parte. La marcia è lenta. I 140 quintali garvano sulle quattro ruote e non consentono eccessive velocità.
Attraversiamo il campo d'aviazione, passiamo il ponte di ferro gettato sul Calamirò e cominciamo a salire verso passo Dogheà. Alla nostra destra lasciamo l'Amba Aradam. Il massiccio che vide cinque mesi fa lo sforzo titanico del nostro esercito, che fu testimone della valentia dei capi e del coraggio e della resistenza dei soldati italiani, la montagna che fu scalata, vinta ed espugnata dai legionari della "23 Marzo" si presenta ai nostri occhi sotto una veste insolita.
Eravamo abituati a vederla come una fortezza, la ricordavamo come un'immensa fiaccola accesa dai mille fuochi di guerra, e a mirarla così, l'Aradam, semplice nel suo aspetto di pace, tranquilla, come un buon gigante addormentato, non ci sembra più essa. Saranno idee, sogni forse, ma francamente ci piaceva di più prima, nel febbraio, quando da tutti i fianchi eruttava fuoco, tanto fuoco che neppure l'acqua piovente dal cielo era capace di spegnere. Tanto fuoco che fu però spento col ferro e col sangue...
Passo Dogheà è superato facilmente. Rapidamente si discende e si raggiunge la piana di Selicot. Laggiù, non si vede, ma si immagina, tra le nubi è Amba Alagi. La strada è piana. Il "34", malgrado il carico, fa ora i suoi bravi 20 km all'ora. Non si può dire di correre, ma considerata la spesa, possiamo essere contenti così...
Gli ascari sono ancora con noi. Silenziosi, rannicchiati l'uno vicino all'altro, avvolti dalla testa ai piedi nella mantellina, non fanno parola. Guardano la strada che ci lasciamo alle spalle e, mi pare, la guardano con nostalgia. Anch'essi hanno famiglia. Partendo, dopo la licenza, hano lasciato mamme, spose e figli. Sono uomini e come noi, come tutti gli uomini, hanno un cuore che ama e che forse palpita di nostalgia per la capanna semi nascosta tra i palmizi di Cheren. Domani questi fedeli soldati, raggiunto il loro battaglione, non sentiranno più la nostalgia della capanna, perchè torneranno a sentire quella più forte della guerra.
Per l'aascaro la guerra non termina mai. Uomini nati per l'azione, anche in pace conservano il loro spirito bellico ed attendono sempre il momento di menar le mani. Momento che, in colonia, prima o poi, non viene mai a mancare.
Ci avviciniamo ad Amba Alagi, mentre dall'alto del Passo Torelli, grosse nubi scendono minacciose verso di noi.
Anche oggi, come ieri, come domani, Giove Pluvio non manca ai suoi impegni. Grossi goccioloni, grandi come talleri di Maria Teresa, cominciano a cadere. In fretta sciogliamo gli attendamenti e ci avvogliamo nelle mantelle, nelle coperte e nel telo tendo. L'acqua cade ora a dirotto. Il nostro autista ferma la macchina ed esce dalla cabina di guida per dirci di pazientare che presto saremo ad Enda Madani ove troveremo riparo.
Infatti, non sono ancora completamente bagnati gli indumenti che ci ricoprono, che giungiamo nei pressi del bosco sacro, poco distante dal luogo che vide l'eroico sacrificio del Maggiore Toselli. La notte si avvicina e con il temporale che infuria sarebbe pazzia tentare di valicare l'Amba Alagi, perciò decidiamo di pernottare ad Enda Madani.
Gli ascari, impassibili ed incuranti della pioggia, si stendono sotto l'autocarro, l'autista si accomoda in cabina e noi - sono con due senesi, un fiorentino e un bolognese - partiamo in cerca di alloggio.
Ci dirigiamo verso un accampamento che sorge a pochi metri dalla strada e cerchiamo dei paesani. Il bolognese trova subito un concittadino, poi è la volta del fiorentino a mettersi a posto ed infine, quando tutte le speranze di incontrare un senese sembrano perdute, mi sento chiamare per nome. Mi volto di scatto e non posso nascondere la sorpresa di vedermi davanti, in divisa cacki, colui che immaginavo a Siena, in cappa nera, seduto al tavolo dell'ufficio di amministrazione di una fabbrica di dolci. Tu! In Africa!
- Già...Io. In Africa. Non lo sapevi?
- No..Ma meglio così. Anche te sei al tuo posto e più che siamo...
- Meglio si sta!
Mi prende e mi trascina nella sua tenda. I miei compagni devono aver certo trovato altri concittadini perchè non mi seguono. Il mio amico, furiere di una compagnia del battaglione speciale della "3 Gennaio" mi assedia di domande di ogni genere, io rispondo, poi domando a mia volta, e via di seguito. Succede sempre così quando ci incontriamo con conoscenti.
Poco dopo giungono i miei compagni, insieme ad altri, scovati tra il groviglio delle tende. Siamo in sei sotto la tenda del furiere, sei senesi, sei amici, sei giovani e, tre dei sei, non hanno ancora cenato.
E' già notte, ma il furiere non tarda ad impiantare la tavola. Pagnotte, scatolette di minestrone, scatolette di carne, e noci. Mancherebbe un pò di vino...ma il furiere, sempre lui, se ne esce misteriosamente dalla tenda e misteriosamente vi rientra poco dopo con tra le mani un fiasco, dico un fiasco Chianti classico. Dove mai sia andato a pescare il vino nessuno potrebbe dirlo. Fuori piove, è notte, e lo spaccio più prossimo è almeno a 20 chilometri. Io - opinione strettamente personale - dubito seriamente che la mensa ufficiali del battaglione abbia fatto le spese alle nostre, moderata libagioni. Ma lasciamo correre, come diceva Tafari...
In quattro e quattr'otto consumiamo la cena, vediamo il fondo del fiasco e ci disponiamo per il riposo. Io rimango nella tenda del furiere, gli altri saranno ospitati dai due concittadini.
Il mio amico mette a disposizione la sua branda.
- Io, mi dice, dormirò sopra alle casse. Vorrei non permettere il sacrificio, ma come si fa, dopo quindici mesi, a resistere alla tentazione di sdraiarsi completamente nudi tra due candide lenzuola?
Senza complimenti, dunque, accetto l'offerta ed, egoisticamente, mi affretto a prender possesso del giaciglio. Poche parole, un "buon riposo" reciproco, un soffio alla candela e dormiamo, cioè io dormo, lui no, perchè, sarà passato un quarto d'ora, mi sento chiamare sonoramente: Corsi...Corsi...
- Che vuoi?
- Dormi?
- No...ma dormivo.
- Scusa. Volevo domandarti una cosa. Lo sai chi ha vinto il Palio?
- No. E tu?
- Nemmeno..chi l'avrà vinto?
Chi l'avrà vinto? Non lo so. So solo che non si dorme più, ormai, per una buona oretta. La discussione riprende e si dilunga. E gli argomenti son sempre quelli: Palio, contrade...
Dopo aver esaminate tutte le probabilità di vittoria dell'una e dell'altra contrada, decidiamo di buon accordo che ha vinto...il primo e ci addormentiamo. Seriamente, questa volta. Dormiamo...e sogno.
Sogno - e chi non lo sognerebbe? - il Palio, Siena, la Piazza del Campo, le contrade...Mi vedo tra la folla, presso ai cancellati; odo il rullar dei tamburi, scorgo il canape che cala, i cavalli che partono a correre...Il cuore che si stringe dall'emozione, non respiro più. Via!...Via!...Forza!...Il cuore pare voglia spezzarsi tanto batte forte...Qualcosa di umido mi bagna la guancia...Mi desto. Lacrime? Macchè!
Un forellino, proprio lassù al centro del telo, lascia passare una gocciola dietro l'altra. E, una dietro l'altra, le gocciole mi piombano sulla faccia.
E mia ha svegliato, quest'acqua maledetta, proprio sul più bello mi ha svegliato! Ha rotto l'incantesimo, forse per non farmi troppo scalmanare in Piazza e darmi modo di essere in piedi, fresco e riposato, domattina, all'alba.

(continua)


Dino Corsi