Il Telegrafo del 29 gennaio 1936
Il pezzo "Rino Daus" ha cantato la sua canzone di guerra
Enda Jesus, gennaio
Quattro pezzi da 65-17, quattro cannoni portanti ognuno il nome fulgido di un Martire toscano, hanno cantato la loro canzone di guerra alla vigilia dell'Epifania.
Rino Daus, Giovanni Berta, Giuseppe Montemaggi, Piero Gattini: quattro Eroi della Rivoluzione che rivivono nel bronzo di quei cannoni da montagna, che ora e' un ventennio, i poderosi artiglieri d'Italia trascinarono a forza di braccia fin sulle cime delle nevose Alpi e per quattro anni tuonarono senza posa, vomitando tonnellate di aciaio e furono i vigili evalidi compagni e collaboratori dei fanti e degli alpini di Vittorio Veneto.
Artiglierie da montagna e da trincea, veterani del Grappa, del Carso e del Montello, i "cannoni dei fanti" passati dalla mani dei soldati delle Vittoria a quelle delle camicie nere della Rivoluzione, hanno cantata in Africa la loro piu' bella canzone di guerra, una delle tante suggestive canzoni imparate molti anni fa dai soldati di quell'Esercito che fu la piu' grande, la piu' giusta e piu' sacra delle vittorie, apri' la via alla Rivoluzione e ala conquista del Fascismo.
E nel nome sacro dei Martiri ai quali si intitolano, i cannoni della Grande Guerra, quei cannoni che sono oggi dell'artiglieria fascista, hanno tuonato a cinquemila chilometri dalla Patria in difesa del prestigio nazionale, dei nostri diritti e della civilta'.
E' vero: si va avanti
L'ordine di marcia e' giunto molto prima del previsto. E con l'ordine la comunicazione che lo spostamento non sara' definitivo e che l'azione da svolgere non sara' la grande battaglia tanto attesa, ma solo una rapida e audace puntata al di la' delle prime linee, con l'obiettivo di battere un forte centro di resistenza nemica.
Non tutta la divisione sara' impegnata. Solo la 192.a Legione "Francesco Ferrucci", la legione di ferro, avra' l'onore del combattimento, se combattimento vi sara'.
E' quasi notte quando i battaglioni, l'artiglieria someggiata, la centuria mitraglieri e i vari reparti servizi discendono l'Enda Jesus, dirigendosi a valle.
La marcia si inizia allegramente. L'odor di polvere che e' in aria elettrizza un po' tutti e mette addosso una smania di fremente entusiasmo.
La colonna sfila tra gli accampamenti. E le camicie nere meno fortunate, quelle che forzatamente devono rimanere al campo, fanno ala al passaggio dei camerati.
Tra partenti e rimasti si scambiano saluti e si ripetono auguri, incitamenti e promesse.
Con celerita', i reparti in partenza raggiungono il fondo valle. La Legione e' tutta un canto, Un canto di giovinezza, di volonta' e di ardimento. Un canto che e' speranza di combattere, speranza di vincere.
La luna chiara e lucente come non mai rischiara il cammino e accompagna i militi nella marcia notturna per alcune ore. Poi l'astro luminoso vegliera' il sonno delle camicie nere dormienti all'addiaccio, in attesa del sorgere del sole per riprendere la marcia e prepararsi al combattimento.
All'alba tutti in piedi, tutti pronti, tutti pieni di volonta' e di speranza.
In formazione di combattimento con alle ali due compagnie di ascari in funzione di fiancheggiatori, la colonna riprende l'avanzata. Si puo' ben dire avanzata giacche' ormai, da piu' ore, le linee italiane sono alle spalle e la Legione marcia in territorio nemico. L'avanguardia e' formata da un nucleo di cavalleria indigena e la retroguardia dalle "fiamme gialle" della Guardia di Finanza.
Sotto il sole cocente, ora superando un'amba ora transitando un vallone, i battaglioni e le centurie vanno avanti, sempre avanti, sempre piu' avanti.
Passano le ore e del nemico nessuna traccia. Con il trascorrere del tempo, la speranza si affievolisce. Non si canta piu', si parla poco e si ride meno.
- Non si trovano...sono fuggiti anche questa volta...L'opinione di non incontrare gli abissini si diffonde dalla truppa e prende sempre piu' concretezza.
- Speriamo sia presto! - esclama un omettino di Siena, ottimista della piu' bell'acqua. Ma nessuno sembra condividere quella ileve speranza. Tutti disperano, ma nessuno parla di fermarsi.
L' "alt", con il successivo ordine di consumare una parte della riserva di viveri, e' accolta quasi a malincuore. In silenzio si tolgono dai tascapani gallette e scatolette e la refezione ha inizio. L'appetito, dopo tante ore di marcia, non dovrebbe mancare. Eppure i bocconi vengono ingoiati a fatica, la carne sembra amara e la galletta piu' dura del solito...
Ma improvvisamente alcuni colpi di moschetto rompono il silenzio e hanno il magico potere di far ingoiare gli ultimi bocconi tutti d'un fiato. Prima pochi colpi, poi una fitta sparatoria, infine una, due, tre, raffiche di mitraglia.
Cosa avviene? Siamo assaliti? Ci sono gli abissini? Le domande, tute senza risposta, si susseguono numerose, mentre con ordine e calma i reparti prendono posizione alle sommita' dell'altura, nella quale stavano bivaccando. In pochi minuti tutto e' pronto per l'offesa e per la difesa. Con serenita' e senza preoccupazione, si attende il ritorno di un plotone di esploratori inviato in ricognizione. Intanto, poco lontano, giu', tra il fogliame che fa verde la valle sottostante, la fucileria crepita intensa.
Non passa gran tempo che gli esploratori ritornano e riferiscono cio' che e' accaduto e cio' che stia accadendo. Il nucleo dei nostri cavalieri indigeni, spintosi molto avanti, e' stato assalito da uno squadrone di cavalleria etiopica, appoggiato da alcune centinaia di fuclieri. Colti di sorpresa, i nostri bravi indigeni, hanno lasciato sul terreno due morti; tre sono stati feriti e ferito e' pure l'ufficiale che li comandava. Ma dopo il primo istante di sbandamento, il plotone dei nostri cavalieri ha risposto al fuoco e si e' posto al riparo, infliggendo perdite non lievi agli avversari. Le forze del nemico non sono accertate, ma si presume che siano varie centinaia.
La notizia che gli abissini sono vicini si diffonde in un baleno tra i militi. Gli ufficiali faticano e sudano le tradizionali sette camicie per frenare l'impazienza delle Camicie Nere, che vorrebbero volare al'assalto. La disciplina, la dura e tanto necessaria disciplina militare, ha ragione degli entusiasmi e placa i bollenti spiriti.
L'assalto, tanto desiderato da tutti, potrebbe dare buoni risultati, ma richiederebbe un forte spargimento di sangue italiano e il sacrificio di tante vite umane. Percio' prevale il concetto di far entrare in azione l'artiglieria.
- Pezzi in batteria! Serventi ai loro posti! Pronti per il fuoco!
Gli artiglieri si dispongono per il tiro. Intorno ai quattro pezzi, i serventi, con gli occhi risplendenti di gioia, si preparano a far cantare i cannoncini, mentre i loro camerati dei battgalioni, pallidi di rabbia mal repressa, costretti a fare da spettatori, guardano con invidia i compagni piu' fortunati e, son certo, qualcuno si augura in cuor suo che il tiro dell'artiglieria non sia sufficiente a vincere il nemico.
Partono i primi tiri di aggiustamento, subito seguiti da tiri di batteria. Gli artiglieri fanno miracoli. Sdraiati o curvi dietro i loro pezzi, avvolti dal fumo e dal polverone, caricano, scaricano, correggono i dati di tiro come se fossero alle esercitazioni in piazza d'armi: precisi, attenti, fermi al loro posto di combattimento.
Dopo i primi tiri, si cominciano a notare gli effetti del bombardamento. Presi di infilata dalle granate e bersagliate dagli srapnels, le schiere degli abissini di aprono e si infrangono seminando il terreno di morti.
Nuvole di polvere si alzano dal suolo, tronchi di albero si spaccano, il fogliame vola in aria. Di tanto in tanto e' un corpo umano, un troncone sanguinante o un ammasso di carne che si alza da terra e ricade pesantemente al suolo. E gli artiglieri, i baldi artiglieri della 192.a Batteria, nascosti dietro gli scudi d'affusto, sparano e sparano, senza vedere nulla, senza nulla sentire, senza la soddisfazione di ammirare gli effetti della loro opera.
Fiamme Nere
Il bombardamento ha presto termine. Il nemico non ha tentato la piu' piccola resistenza. Decimati dai tiri rpecisi della batteria, gli abissini si sono sbandati e, seminato il terreno di morit e di feriti, si sono affidati alla rapidita' dei loro cavalli per sfuggire all'uragano di ferro e di fuoco.
Ora gli artiglieri si riposano. le facce dei serventi sono coperte da una maschera di polvere e di sudore, ma i loro occhi sono piu' lucenti che mai. La gioia del successo, del combattimento, del "loro" successo, del "loro" combattimento, trasfigurisce questi ragazzi e da' alle loro facce, sfigurate dalla machera di fanghiglia, un qualcosa di bello, di grande, di eroico. Qualcosa che desta l'invidia di chi non ha la fortuna di essere tra i pochi fortunati artiglieri.
Appena possibile, appena cioe' ci possiamo avvicinare alla batteria, circondiamo i nostri camerati, i nostri eroi di oggi, e chiediamo le loro impressioni, vogliamo sapre se sono contenti, vogliamo, insomma, tentare di carpire loro una parte di quell'intima gioia che la soddisfazione del combattimento ha suscitato in essi.
Ed i nostri camerati si fanno in quattro per rispondere alle nostre domande, per dire tutto cio' che sanno ed anche un po' di cio' che non sanno.
I senesi - sono tanti i senesi nella 192.a Batteria - sono i piu' laconici, ma anche i piu' chiari nelle loro spiegazioni.
- Te lo vedo di'? - Mi dice un puntatore - Io ho visto poo, ma cosi' a occhio credo d'ave' puntato bene...insomma, l'ho dato il caffe' col rigatino! - E dopo essersi asciugato il sudore, conclude: Io ho visto poo, ma loro hanno visto la luna nel pozzo.
L'ordine di riprendere la marcia tronca le discussioni e i commenti. I reparti riprendono l'inquadratura solita e la legione sfila sulla via del ritorno.
I quattro pezzi sono smontati in un attimo e in un attimo someggiati a dorso dei muli. Uno alla volta, i cannoni discendono la mulattiera. Avanti ogni pezzo il gruppo dei serventi. Ogni gruppo ha la sua fiamma nera con scritto sopra a lettere d'oro il nome di un martire.
Fiamme nere, fiamme della nostra fede, del nostro ardimento, del nostro sacrificio., della nostra vittoria. Fiamme rese leggendarie dall'epopea gloriosa dell'arditismo, fiamme insanguinate dal sangue purissimo dei Martiri della Rivoluzione, fiamme che avete varcato i mari portate dai legionari della nuova Italia, fiamme che siete simboli, vessilli e comandamento, sventolerete ancora al soffio del vento della vittoria, portate sempre piu' in alto dalle camicie nere di quella Divisione, che "Implacabile" nel motto, e' implacabile nell'azione e nella volonta' di combattere e vincere.
Scendono gli artiglieri e alzano sopra le teste le aste delle fiamme. Il sole fa luccicare le lettere d'oro: Giovanni Berta, Giuseppe Montemaggi, Piero Gattini...Rino Daus. Eccolo il "pezzo Rino Daus"! Stretti intorno al nero gagliardetto i cannonieri senesi ripetono le parole commoventi della vecchia canzone squadrista:
Daus, fratello nostro,
dormi tranquillo il sonno...
E in tutti e' la certezza che il sonno del Martire non sia mai stato tranquillo come in questo pomeriggio di gennaio africano, guacche' lo spirito del Caduto puo' beatamente riposare, quando in suo nome, un cannone spara, distrugge, uccide e vince per il trionfo della Causa che ieri dei Martiri e che oggi e' di un Popolo tutto.
Dino Corsi