Il Telegrafo del 22 novembre 1935
Laboriose giornate di sosta tra Adua e Macallč
Tigrai, novembre
Se ad ogni sbalzo in avanti dei nostri soldati sono chilometri e chilometri di territorio sottratto alla barbarie, allo schiavismo e all'incivilta', ogni giornata di sosta delle truppe operanti oltre il Mareb serve a dare un'impronta sempre piu' spiccata di romanita', di operosita' fascista e di progresso alle regioni fino ad oggi conquistate dal valore delle armi italiane e gia' redente dall'intensa opera di civilta' dei soldati, dei militi e degli operai della nuova Italia.
Giornate di sosta dopo le prime operazioni di carattere bellico. Giornate di sosta e non di riposo. Al pari dei legionari dell'Antica Roma, gli italiani di oggi, sbaragliato il nemico, occupate le posizioni strategiche, obbiettivo della prima tappa della grande marcia iniziatasi il 3 ottobre, fortificate e rese inespugnabili le vette dei monti e le cime delle pietrose ambe, hanno deposto per un po' le armi e hanno impugnato badile e piccone, iniziati i primi lavori stradali, i primi impianti idrici e tutto quanto si puo' rendere necessario all'ulteriore sviluppo delle operazioni.
Tutti i soldati senza distinzione di corpo e di specialita', tutte le truppe gia' impegnate con successo nel primo balzo oltre il vecchio confine, hanno contribuito e contribuiscono con il loro lavoro, a liberare la parte gia' nostra del Tigrai dall'abbandono e dall'incuria, in cui questa regione, ricca e fertile, era lasciata dai Ras e dai governanti di Addis Abeba, sempre pronti ad imporre balzelli e a vessare, in forme malvagie e inumane, le misere popolazioni indigene, senza mai pero' portare nei villaggi e nelle capanne la benche' minima traccia di civilta', di progresso, di istruzione, di igiene, di assistenza, sia morale che materiale.
Il soldato italiano, dopo la conquista ha sostato e si e' guardato indietro. Guardando ha riveduto i dirupi scoscesi, le irte montagne, le folte boscaglie, i piani erbosi e sterminati con tutti i sentieri primitivi da lui percorsi durante l'avanzata. Sentieri tracciati li' per li' con la baionetta o con l'attrezzo leggero, sentieri che pur avendo permesso il passaggio delle truppe, non potevano permetterlo alle macchine costrette ad interrompere la loro marcia ai primi ostacoli ed alle prime aperita' del terreno.
Guardando, il soldato ha compreso che per rendere completa la conquista, per far si che la marcia potesse continuare, era necessario allargare i sentieri e fare di questi delle strade. E con la stessa volonta' e lo stesso entusiasmo con cui aveva gridato il "Savoia" e l' "A noi!", al momento dell'attacco, il soldato, questo grande ed inimitabile soldato italiano, si e' rimboccate le maniche della camicia, ha dato di piglio al piccone e, momentaneamente, e' ritornato quello che fu ieri e che sara' nuovamente domani: il figlio di un popolo di lavoratori, che ha redento l'Agro Pontino e vinto la Battaglia del Grano.
"Arrivano gli autocarri"
Come per incanto sono sorte le strade. E con queste i primi villaggi di baracche, i primi pozzi nelle localita' mancanti di corsi d'acqua ed i primi perfetti impianti idraulici nei pressi dei fiumi, dei torrenti e delle sorgenti.
Per giorni e giorni si sono vedute Legioni intere, Reggimenti al completo, migliaia e migliaia di uomini lavorar di piccone e di pala per aprire le prime vie di comunicazione, che ampliate domani da soldati del genio e perfezionate dalle centurie di operai volontari, costituiranno una rete stradale perfetta e di grande utilita'.
Tutti i combattenti, tutti, camicie nere e soldati, sottufficiali, graduati e truppa, hanno lavorato sotto la direzione e guida degli ufficiali e di commilitoni piu' esperti, divenuti per l'occasione ingegneri, geometri e assistenti.
Dove poco prima aveva tuonato il cannone e crepitata la mitraglia e la fucileria, si e' udito per piu' giorni l'esplosione delle mine e l'allegro picchiare delle mazze e dei picconi.
Dall'alba al tramonto si e' lavorato senza posa. Anche l'impiegato, anche lo studente hanno impugnato gli arnesi dello sterratore, incuranti della insolita fatica o delle piccole ma dolorose piaghe apertesi nelle loro mani dalla pelle troppo delicata fino ad ieri, ma che non lo sara' piu' domani quando i calli avranno lasciata sulle palme la loro ruvida e nobile impronta.
Ed il lavoro e' stato premiato come meglio non poteva esserlo. Il giungere degli autocarri fin sotto le prime linee, la prova piu' evidente dell'utilita' dell'opera compiuta era il miglior premio ed il piu' desiderato che gli operai armati potevano attendersi.
sono giunti gli autocarri, una mattina, quasi improvvisamente. Il rombo dei motori, lontani prima, una nuvola all'orizzonte poi, ce ne hanno dato l'avviso. E' stato un accorrere di soldati da tutte le parti: verso la strada, verso l' "autostrada tigrina". - Arrivano gli autocarri.
La notizia si e' diffusa in un baleno negli accampamenti, nei ricoveri, nelle ridotte e su fino ai piccoli posti avanzati.
Sono arrivati i potenti automezzi, dal poderoso sei ruote alla traballente autocarretta, dalla sbarazzina "Balilla" alla lussuosa berlina degli inviati della stampa, sono arrivati e ci hanno cantato la bella canzone dei loro motori. Una canzone in prosa, che in parole povere diceva cosi':
"Siamo arrivati quassu', dove ieri non giungevano che le gazzelle, gli antilopi, gli scoiattoli e gli uccelli rapaci.
"Siamo arrivati passando per la strada tracciata da voi, prima con le armi e poi con il piccone, o soldati d'Italia.
"Siamo arrivati e portiamo con voi il pane per i vostri corpi e quello per i vostri cannoni e moschetti.
"Siamo arrivati per dirvi che il nostro arrivo e' per voi l'ordine di avanzare ancora, l'ordine di riprendere le armi, per opter domani riprendere il piccone e il badile.
"Siamo arrivati per salutarvi ed augurarvi un cameratesco arrivederci. Rivederci a presto, alla prossima tappa della vostra e della nostra marcia. Voi partire, noi attendiamo qui che le vostre armi e i vostri attrezzi abbiano aperta la strada alla nostra avanzata, all'avanzata della civilta', del progresso e della romanita'. A rivederci a presto!".
La posta
Con l'apertura delle vie di comunicazione ed il conseguente regolare afflusso degli automezzi fino nella zona di operazioni, tutti i servizi logistici hanno acquistato di regolarita' e di celerita' nel loro funzionamento. E cosi' pure il servizio postale, che va sempre piu' perfezionandosi malgrado le centinaia di migliaia di lettere e cartoline, giornalmente in partenza e in arrivo da Massaua.
La posta, come il pane lo e' per il corpo, e' il nutrimento indispensabile dello spirito delle truppe. Catena di collegamento con la Patria, con la casa, con la famiglia, la posta e' tutto per il soldato. Si puo' saltare il "rancio", si puo' rinunciare alla "pagnotta", ma la posta e' la posta, e' la cosa alla quale non si puo' rinunciare a nessun costo, per nessuna ragione.
Bisognerebbe (e questo lo dico per quei pochi ...smemorati, che fanno, dall'Italia, mancare loro notizie al parente o all'amico) che tutti gli itailani comprendessero che cosa significhino, per chi vive a 6000 chilometri dai suoi cari, dai suoi affetti, quattro righe scritte su u foglio di carta e recanti dalla Patria un pensiero gentile, una parola di ricordo, il bacio della mamma, della donna del cuore, le parole dell'amico caro; bisognerebbe, ripeto, che tutti comprendessero quanto giovi al morale dei soldati il ricevere spesso ed in grande quantita' la corrispondenza, e son certo che allora i quintali di missive che giornalmente arrivano quaggiu' diverrebbero altrettante tonnellate.
Nulla di piu' commovente, di piu' emozionante della distribuzione della posta. Un cerchio che si stringe attorno al postino, facce ansiose, corpi tremant nell'attesa. Un nome. A me! Un altro: A me! Nomi, nomi, nomi.
E grida di gioia , grida che sembrano, e forse lo sono, invocazioni.
Dopo la distribuzione, un'occhiata in giro serve a far comprendere chi ha e chi non ha ricevuto posta. Gioia e commozione nei primi, melanconia, tristezza e, perche' no, dato che cio' e' umano?, invidia negli altri.
Le lettere si aprono con mai tremanti, si leggono di un piato, ri sileggono, si baciano, si mettono da parte nello zaino, tra il ritratto della mamma, quello della sposa, della fidanzata e con le cartoline con la fotografia della Torre del mangia o del Duomo di Siena...Reliquie con reliquie.
C'e' poi chi non sa leggere. Sono pochi, invero. Credo una diecina in tutta la Divisione. dieci su diecimila: un'inezia; nulla, si potrebbe dire. E questi, come tutti, ricevono la posta, ma non possono leggerla. Vanno in cerca dell'amico, del compaesano, del compagno fidato che possa comprenderli, comprendere i loro sentimenti e condividerli. Niente e' piu' triste, almeno per me, di questi camerati che devono forzatamente fare appello alla benignita' ed alla discrezione altrui per ricevere le espressioni di affetto dei congiunti e per aprire il cuore alle persone care. Niente di piu' triste, ho detto, ma niente di piu' bello, di piu' grande quando qualcuno di questi infelici (l'espressione e' un po' rude, ma purtroppo, giusta), apprende a leggere e scrivere, attraverso quella impareggiabile scuola che e' la vita militare.
Voglio narrare di uno di questi analfabeti, o meglio di uno che se ne parti' analfabeta e che oggi ha come me, come tutti i suoi compagni, la gioia grande di poter scrivere i suoi pensieri e di poter leggere quelli degli altri.
Lo seppi in Italia, precisamente a Sora. E me ne meravigliai, dato che si trattava di un senese, e di un bravo giovane dall'aspetto sveglio ed intellogente. Seppi da lui, un forte oepraio della Val d'Arbia, perche' e come gli fosse venuto a mancare l'istruzione. Ed appresi cosi' la commovente quanto triste storia di una povera famiglia, bersagliata dalla sorte poco benigna.
Lo consigliai a fare qualcosa per uscire dal suo stato di ignoranza ed unitamente ad altri camerati, mi interessai di lui e della sua istruzione. Fu sin dai primi giorni allievo diligente ed assetato di sapere. Si mise a studiare con volonta' e sfrutto' ogni minuto di liberta' per dedicarli al sillabario.
Non so dire quanta commozione provai quando, per la prima volta, vidi l'atletico busto del forte ragazzone curvo sul libriccino che ricorda l'infanzia ed udii la sua bocca sillabare con voce potente eppure infantile.
Poi, fummo divisi, non lo rividi per molto tempo. Anche la traversata la facemmo separati. In Africa ebbi occasione di incontrarlo piu' volte, ma mai di domandargli dei suoi studi. Pensavo, pero', che avesse tutto abbandonato.
Giorni fa, la lieta sorpresa. Lo incontro, ci salutiamo e poi e' lui che mi rivolge questa domanda:
- So che ri arrivano molti giornali. Potresti darmene qualcuno?
- Giornali!? Per farne cosa?
- Per leggerli, Dio bonino! Ho imparato, sai! Ora leggo e scrivo anche! Guarda, l'ho ricopiata io.
E mi pose sotto gli occhi una copia del discorso del Duce del 2 ottobre.
Afferro la carta e leggo. Una calligrafia chiara, un po' bambinesca, e' vero, ma chiara quanto mai. Vorrei dire qualcosa, ma e' lui che mi previene:
- L'ho ricopiato da me e l'ho anche imparato a mente. Ora posso anche scrivere a casa. Mi dovrebbe riuscire. Ho studiato tanto! In piroscafo, poi, giorno e notte.
Non posso nascondergli la mia gioia e la mia ammirazione per la sua volonta' e la sua costanza. E gli domando se ha mai scritto a casa.
- No, ancora no - mi rispoende - ma volevo mandare una lettera oggi, la prima. L'ho belle preparata: vuoi leggerla?
Leggo la lettera indirizzata alla mamma, ad una mamma che no ha mai ricevuto lettere scritte dal figlio lontano...Una lettera piena di sentimenti da uomo, rivelati con parole da bambino. Ho appena terminata la lettera che il camerata domanda il mio giudizio: - Va bene? Posso mandarla? E, credi, che sara' contenta la mi' vecchia?
Si, ragazzo mio, va bene, puoi mandarla, e la tu' vecchia sara' contenta. Tanto contenta! La vedo la tua vecchietta, la tua cara mamma che tu mi hai cosi' bene descritta un giorno a Sora. La vedo, questa umile mamma italiana,e la vedo fiera di un figlio tanto bravo. E la', la mamma tua, in quella modesta casetta mezza nascosta dai pioppi che fiancheggiano l'Arbia. La vedo, seduta vicino al focolare, tenendo con le mani tremanti quel foglio che mi hai mostrato. E vedo la sua faccia piena di rughe trasfigurarsi dalla gioia ed i suoi occhi lacrimare dalla commozione.
Scrivi ragazzo mio, scrivi alla tua vecchietta, a questa mamma che avra' domani, leggendo la tua prima lettera, la piu' grande giia della sua vita. E possa tu comprendere quanto sei stato bravo e buono, per te e per la tua mamma che ti vuol tanto bene.
Dino Corsi