Il Telegrafo del 25 luglio 1936
Dalla capitale eritrea alla tana del leone di Giuda (I)
Uoldia, luglio
Soltanto nove o dieci mesi fa, un viaggio da Asmara al villaggio di Uoldia sarebbe stato cosa quantomai difficile, pericolosa, ricca di imprevisti e di incognite ed avrebbe richiesto non meno di una cinquantina di giornate di marcia per essere portato a compimento. L'anno scorso nel mese di luglio poi, con le "grandi piogge" in pieno sviluppo, anche il viaggiatore più ardito e più pratico della Regione che attraversava avrebbe dovuto rinunciare all'impresa ed attendere la stagione più propizia per iniziare il suo cammino attraverso l'altopiano etiopico.
Oggi invece (e le piogge cadono con la stessa violenza dello scorso anno) si può, dalla capitale della nostra colonia primogenita raggiungere, in soli tre giorni, e forse anche in meno, l'agglomerato di tucul che costituisce l'importante centro della zona dei Galla-Amharici. Basta avere a disposizione un'ottima vettura da turismo, un autista un tantino audace - e gli autisti in A.O. non mancano nessuno di una buona dose di auducia - per poter compiere il prodigioso e quasi incredibile balzo di oltre ottocento chilometri dall'Eritrea ai confini dello Scioa.
Noi - io ed alcuni miei camerati della "23 Marzo" - viaggiando su "mezzi di fortuna" ne abbiamo impegnate poco più di cinque di giornate per andare da Asmara a Uoldia, usufruendo oggi di un autocarro mliitare e domani di un "34" civile. Siamo giunti a destinazione con le ossa un pò rottte, ma in perfetta salute ed entusiasti di un viaggio straordinario e straordinariamente interessante e nuovo.
Albeggia quando usciamo dalla baracca del comando di tappa, ove abbiamo trascorso la nostra ultima notte amarina, e ci portiamo al posto di blocco. Piantato al centro della strada, un milite della Benemerita "blocca", meglio di ogni freno, tutte le macchine che vanno e vengono dalla città. Rapida verifica dei documenti, e le vetture da turismo procedono velocemente. Gli autocarri invece, sono costretti ad una sosta più lunga. Cariche o no, le macchine devono ospitare un discreto numero di militari, di quei militari che si affollano ai margini dell'autostrada in attesa dell' "imbarco" che li conduca, quello ad Adua, l'altro a Macallè, un terzo a Dessiè, un quarto a Gondar ed un ultimo, magari, ad Addis Abeba.
All'invito del carabiniere, l'autista dichiara dove è diretto e quanti posti può avere a disposizione sulla macchina. Generalmente uno o due, ma spesso anche cinque, dieci o venti, a seconda del carico.
Lentamente, i soldati saltano al di sopra del cassone, si accomodano alla meglio tra i fusti di benzina, i sacchi di cereali, le casse di merci varie ed in mezzo ad ogni altro genere di colli, contenenti le merci più svariate. Improvvisano sedili con gli zaini, con le mantelline e con quant'altro può fungere da soffice cuscino e si preparano alla scorrazzata. Gli ascari, generalmente, sono i primi a mettersi a posto, specialmente se il carico è molto alto. Si arrampicano su come scimmie, trascinandosi dietro il loro fardello inverosimile nella forma e nel contenuto e, senza preoccuparsi delle scosse e dei traballamenti, prendono posto nella parte posteriore dell'autocarro, in quella parte cioè dove si "balla" anche quando la strada è perfettamente piana. "Noi, dicono essi sorridendo, stare contenti perchè ballare fantasia con automobile". E chi si contenta gode! Integrato con gli uomini il carico di merci, la macchina riparte ed un'altra è già pronta, in attesa. Così per delle ore, tutte le macchine ed in tuti i numerosi "posti di blocco" dislocati lungo le varie autostrade, camionabili e piste rotabili.
La nostra attesa è breve. Siamo giunti da poco, che ecco arriva un camioncino "Ardito" del servizio militare. E' scarico, completamente scarico, e diretto ad Enda Jesus. Saltiamo sulla macchina, in due istanti ci accomodiamo e via! Con noi hanno preso posto otto ascari del 7.o Battaglione e due mercanti indigenti di Asmara.
Gli ascari, tutti della regione di Cheren, sono reduci dalla licenza e raggiungono i loro reparti, accampati nei pressi di Addis Abeba. Ci accompagneranno fino ad Enda Jesus e forse più oltre. I due mercanti sono diretti a Docomerè per affari e ci lasceranno fra breve.
La macchina fila veloce nel nastro di asfalto. Il terreno, leggermente il discesa, favorisce la velocità e le curve, numerose ma ampie e dal fondo ottimo, non sono di ostacolo al nostro rapido procedere.
Ai lati della strada i cespugli di fichi d'india formano una siepe folta e continua e rotta di tanto in tanto da una filata di alberi di pepe o da euforbie. Viaggiamo per mezz'ora fra il verde della vegetazione, poi le piante si diradano, scompaiono del tutto e lasciano il posto alla roccia nuda.
Ora la strada è tagliata nella montagna. Quando a destra, quando a sinistra, si aprono dei precipizi e degli strapiombi che ci fanno scorgere le valli sottostanti lussureggianti di vegetazione.
In tre quarti d'ora giungiamo a Docomerè. breve sosta al "blocco". I mercanti scendono e se e vanno per i loro affari e noi proseguiamo lasciando la strada asfaltata ed internandoci su qualla cilindrata che porta al vecchio confine.
Attraversiamo Docomerè, questa immensa città di abarcche, di cantieri e di macchine, formicolante di uomini e pulsante di attività, ed affrontiamo le prime salite sulla via di Saganelti.
Pochi operai e molti soldati lungo il tracciato stradale. Ovunque si lavora, si costruisce, si crea. Baracche in legno e lamiera, baracconi, palazzine e villette in muratura, ponti, acquedotti e ogni altro genere di lavori in costruzione contrassegnano la zona. A saganelti, autoparchi civili e militari, officine, depositi e cantieri. Il tutto intramezzato da orti e da giardinetti, che fanno intravedere, attraverso la barriera degli alti alberi che li cingono, il candore delle fresche insalate, gli uni, e l'iride dei loro fiori, gli altri.
Adi Cherè, piantata sulla sommità di una collina che domina la valle di Senafè, ci appare come uno dei nostri villaggi montani. Costruzioni in muratura all'europea, strade rudimentalmente selciate, una bella piazza al centro e, nella piazza, la Casa del Fascio, la palestra dell'O.N.B., la farmacia, il caffè, il ristorante...Manca soltanto la "filarmonica del paese" per completare il quadro strapaesano, Ma non manca la musica. Ed è una musica soave, gentile e commovente: il gorgheggio di tanti bambini, figli di residenti, che, uscendo dalla palestra, si sono sparsi per la piazza e disseminati per le vie, portando un'onda di freschezza in questo bruciante pomeriggio africano.
Quasi a malincuore ci allontaniamo da Adi Cherè e lasciamo alle nostre spalle la troppo rapida visione della Patria lontana. La strada discende quasi a precipizio. Si scorgono i roccioni di Senapè, che furono testimoni delle gesta dei nostri padri e salutarono una delle più belle vittorie italiane della campagna '95 - '96. Alla sommità del roccione principale, un maso colossale che sembra staccato dalla montagna e lanciato a valle da mano ciclopica, si erge la Croce, eretta a memoria dei padri caduti per la conquista della Colonia. Il braccio destro del simbolo cristiano si protende verso occidente, come ad indicare la via di Roma, quello sinistro guarda ad oriente, e sembra una freccia puntata là, per indicare il cammino da compiere, ieri, già compiuto, oggi.
Scendiamo appena giunti alla trattoria, impianata all'inizio del villaggio nazionale. Il villaggio indigeno è un pò distante dalla strada e comprende alcune centinaia di capanne a orma cubica dalle pareti di pietra murata con sterco animale ed il tetto di paglia e fango disseccato. Quello nazionale non è un villaggio vero e proprio, ma piuttosto un vasto accampamento ed abbaraccamento. Tutta la piana di Senafè è coperta di capannoni, da tende multiformi e da baracche. Qui, oltre al consueto autoparco, alle officine, ai depositi ed ai vari impianti dell'Intendenza A.O. e del Comando truppe, sorge un importante centro ospedaliero, capace di varie centinaia di letti ed attrezzato modernamente per la cura di ogni genere di malattia.
Il clima, a Senafè, come a Cheren, a Dacomerè e a Malabar, luoghi prescelti per l'impianto di ospedali, l'aria è ricca di ossigeno e la pioggia cade con meno violenza che nelle altre Regioni.
Ci fermiamo un'oretta in trattoria, ove consumiamo il "prezzo fisso" (lire 13,50: minestra, carne con verdura, pane e caffè) e poi proseguiamo per Adigrat. Il cielo si è rannuvolato, un leggero venticello comincia a soffiare. Tra poco avremo la pioggia, la "grande pioggia".
La macchina corre per il piano, mentre cominciano a cadere le prime goccie. Siamo ormai al vecchio confine. La località da dove la colonna Santini, operante all'ala sinistra del fronte nord, iniziò la notte dal 2 al 3 ottobre, la marcia vittoriosa, è segnata da un cippo marmoreo scolpito dai fanti della "Sabauda" e ivi posto a ricordo della prima marcia verso la conquista dell'Impero.
Il temporale si è completamente scatenato, rovesciando torrenti di acqua, quando arriviamo ad Adigrat, luogo prescelto per la sosta notturna. Il sole esce ancora di fra le nubi a porgerci il suo morente saluto, prima di coricarsi, e poi scompare per lasciare il psoto alla prime ombre della sera.
Adigrat è il primo anello della poderosa catena che unisce ormai definitivamente l'Eritrea all'Etiopia. In un conca ricca di verde e circondata da montagne rocciose e brulle, il villaggio, dominato dal forte e dai fortini, si mostra all'occhio del'osservatore, come un ammasso di giganteschi cubi bruni al centro dei quali si alza imponente la mole, quasi artistica, del ghebì del capo.
I reparti nazionali, automobilisti, meccanici, elettricisti del Genio, artiglieri del deposito munizioni e camicie nere, sono scaglionati nei pressi del villaggio, intorno alle baracche del comando di tappa. Troviamo tra i militari molti toscani e tra questi due senesi. Un geniere e una camicia nera del "Gruppo Diamanti", entrambi vecchi conoscenti a Siena e in Africa. I concittadini ci ospitano nella loro tenda, ci offrono una buona cena, che noi contraccambiamo con un paio di fiaschi di Chianti, al vicino ristorante (una baracca di vecchie casse vuote e latte di petrolio) e mangiamo, beviamo, non tralasciamo la tradizionale cantata, particolarmente di prammatica essendo proprio il 2 luglio, ed infine ce ne andiamo a riposare, in attesa dell'alba e della ripresa del viaggio.
(continua)
Dino Corsi