Il Telegrafo del 13 febbraio 1936
La Divisione "Implacabile" alla prova del fuoco
dal fronte eritreo, Piano di Gabat Calamino', gennaio
L'ora e' suonata! L'ora tanto attesa, tanto sospirata del combattimento, e' giunta. E "implacabile" come il Duce la volle, la "23 Marzo" ha combattuto per piu' giorni, ha dato alla Patria il fior fiore dei suoi Legionari, ha arrossato di sangue purissimo le ambe africane, ha scritto pagine di gloria e di ardimento; ha vinto!
Mentre scrivo, il cannone tace, la mitraglia si e' zittita, la fucileria non crepita piu'. I militi riposano i corpi stanchi, in attesa del combattimento di domani. Perche' domani si combattera' ancora.
I labari delle legioni, le fiamme dei battaglioni, delle batterie e delle sezioni, sventolano al soffio della brezza di gloria e vegliano il sonno dei caduti.
Sono caduti, i nostri fratelli, tutti da prodi. Sono caduti con le armi alla mano e con il nome della Patria, del Duce e della Mamma sulle labbra.
L'albo sanguinoso del martirologio fascista si arricchisce dei nomi gloriosi delle camicie nere cadute in Africa; martiri dell'idea rivoluzionaria, eroi della romanita' e del diritto.
Tutte le legioni hanno dato il contributo di sangue e di giovinezza. E tutte le provincie, che alla "23 Marzo" diedero ieri i legionari, hanno oggi uno o piu' nomi da aggiungere alla lista dei Prodi, che caddero un giorno sulle vie e sulle piazze d'Italia, per il trionfo di quella Rivoluzione che oggi continua in Africa Orientale e che domani continuera' nel mondo.
E con le altre Provincie, anche Siena, sempre generosa, anche la 97.a Legione, oggi piu' che mai "fedelissima", hanno dato alla Patria un figlio e un milite, che e' caduto da prode, con il petto squarciato da un proiettile "dum-dum". Uno di quei proiettili che i nostri alleati di ieri forniscono al barbaro etiopico: uno di quei proiettili che non perdonano, come non potremo mai perdonare i legionari della nuova Italia.
Davanti al corpo esanime del camerata Meacci, su quella terribile ferita che macchiava di vermiglio la nera camicia del Martire, i volontari senesi hanno giurato di non dimenticare. E non dimenticheranno!
E nessuno dei quarantacinque milioni di italiani, mai dimentichera' i fasci di moschetti di produzione belga 1935, le modernissime mitragliatrici inglesi, le casse di pallottole "dum-dum" e tutte quelle armi venute dall'Europa, che oggi, dopo la battaglia, sono ammassate nei nostri campi, a dimostrazione del piu' nefando crimine commesso nel mondo ai danni del piu' civile dei Popoli.
Episodi
Non avendo la possibilita' di usare i mezzi rapidi, come la radio, il telegrafo, per corrispondere con il giornale ed essendo forzatamente costretto a far giungere in ritardo le mie impressioni, mi astengo da descrivere, dopo che l'ha gia' fato dettagliatamente tutta la stampa, le fasi particolareggiate della battaglia che per tre giorni consecutivi le camicie nere della "23 Marzo" hanno combattuto nella piana di Gabat Calamino' e mi limito a parlare di quegli episodi piu' interessanti che ho avuto la ventura di vivere sia da attore che da spettatore.
Tre giorni di fuoco pressoche' incessante. E per tre giorni e tre notti i militi sono rimasti ai loro posti di combattimento, calmi, sereni e fiduciosi, come se fossero alle normali esercitazioni di tiro.
Dall'alto delle ambe, che precipitano a picco nella valle e dominano il campo d'azione nemico, le legioni hanno respinto cento attacchi, ricacciato cento volte l'avversario, decimate le orde nemiche e, infine, hanno disceso il dirupo e fugati i resti della colonna etiopica.
Mitraglieri di tutti i battaglioni, sono rimasti per quarantotto ore "attaccati" all'arma e per quarantotto ore hanno vissuto di emozioni e di ardimento, piu' che di pane.
Mitraglieri sono stati i primi caduti: un ufficiale e un milite. L'arma era stretta da un cerchio di avversari, ma continuava a cantare. Un caricatore dietro l'altro, cinquanta colpi prima, cinquanta poi. Una canzone terribilmente interminabile. Il cerchio fu spezzato, ma con il cerchio si spezzavano le prime due giovinezze italiche.
L'ufficiale cadde con il corpo straziato da tre "dum-dum"; il tiratore della mitraglia spiro', mentre le sue dita stringevano ancora la manovella dell'arma. Prime vittime, primo tributo pagato alla vittoria.
E poi, con il volgere delle ore, con il proseguire dell'azione, altri sono caduti sul campo, alcuni sono spirati nelle tende di medicazione.
Uno di questi eroi, un padre di famiglia fiorentino, mentre i medici gli si affollavano intorno, nell'estremo tentativo di strapparlo alla morte, si volse a un ufficiale e, tranquillo, prego' che tralascissero di curarlo. "Sento che devo morire, disse, ma non piango. So che mia moglie e i miei ragazzi avranno nel Duce un nuovo e piu' valido padre. Muoio contento per la Patria, per il Re e per il Fascismo".
Pochi minuti dopo spirava. Ho visto caricare la salma sull'autoambulanza diretta al cimitero di Macalle'. La barella, coperta da un drappo tricolore, e' stata portata a braccio, per un certo tratto, dai compagni del caduto. E come un giorno al piccolo cimitero di guerra, ho avuto la sensazione che la bandiera della Patria proteggesse l'eroe, come domani proteggera' i suoi bambini, stringendoli in un abbraccio tra le sue seriche pieghe.
Tanto ci sarebbe da dire di tutti i caduti e tanto si potrebbe scrivere sugli episodi di eroismo che sono fioriti qua e la', tra una ridotta e un trinceramento, tra il riparo di una batteria e un posto di medicazione.
Dietro un masso, accucciati l'uno vicino all'altro, sono due militi; a intervalli precisi, quasi cronometrici, si alzano, prendono la mira e sparano. Poi si riabbassano, si rialzano e via cosi' per un'ora. I colpi non falliscono, non un proiettile va perduto. Ma il nemico vigila e riesce ad indivivuare i due tiratori. Per l'ennesima volta, i militi si rialzano, ma una scarica lo colpisce in pieno. L'uno e' freddato, l'altro, ferito abbastanza gravemente in piu' parti del corpo, non si scuote. Afferra il moschetto del compagno, perche' il suo ha avuto il calcio spezzato da un proiettile esplosivo, e continua il giochetto. Per mezz'ora fa fuoco, stende al suolo una diecina di nemici, ma poi cade. Il sangue perduto in gran copia dalle ferite lo ha indebolito, tanto indebolito che non ha piu' la forza di fare un movimento. Soccorso, curato e trasportato ad un posto di smistamento, muore appena caricato sull'ambulanza. E, spirando, si solleva sulla barella, in un estremo tentativo di rialzarsi e di sparare ancora...
Un altro milite e' colpito ad una gamba. Non puo' muoversi, i portaferiti accorrono a fanno per adegiarlo sulla barella. Il ferito indugia. Ha il moschetto carico e vuol sparare. Con calma e precisione mette a segno i sei colpi. Sei nemici cadono. Il ragazzo, ha appena vent'anni, depone l'arma sulla barellina, vi si adagia e rivolto al portaferiti, dice sorridendo: Portatemi via. Ho sparato i sei colpi per alleggerirvi il peso, ora andrete piu' meglio...
Episodi che nella loro semplicita' dicono con quale animo le camicie nere della 1.a Divisione abbiano affrontato la battaglia, episodi che stanno a testimoniare l'ardimento della razza, la volonta' e il menefreghismo dei combattenti italiani.
Ho citato alcuni dei tanti episodi, ai quali ho assistito durante lo svolgimento del delicato compito dl portaferiti, svolto, insieme ai camerati della mia compagnia, nei tre giorni di combattimento. Ma, volendo, potrei continuare ancora per un pezzo a narrare le gesta di tanti audaci, di tutti gli audaci, di tutti i militi della "23 Marzo" che hanno combattuto da eroi e, in linea o nelle retrovie, contribuito ad uno dei piu' fulgidi successi delle armi italiane.
Se i mitraglieri hanno svolto un compito importante ed efficace, i fucilieri non sono stati da meno come eroismo e sprezzo del pericolo. E gli artiglieri, i bravi artiglieri dell'artiglieria fascista, hanno fatto sentire il loro peso nello svolgimento della battaglia. I cannoncini da 65-17 hanno funzionato a dovere e di questo funzionamento ne sanno qualcosa i baldanzosi cavalieri degli squadroni etiopici, sbalzati di sella, sbattuti contro il suolo e sterminati dalle granate delle batterie delle Camicie Nere.
I portaferiti - e cio' sia detta senza ombra di spirito di corpo, giacche' nella "23 Marzo" non ci si sono distinzioni di specialita', ma siamo tutti volontari, solo volontari e ci sentiamo tutti arditi, tutti "fiamme nere" - sono stati gli oscuri eroi di sempre, di ogni guerra.
Sempre pronti a correre ove maggiore era il pericolo, sfidando impavidi il fuoco e il piombo nemico, difendendosi e difendendo i feriti a colpi di pistola, cadendo essi stessi morti e feriti, malgrado il segno della croce rossa che dovrebbe renderli intangibili, i portaferiti hanno combattuto la lor battaglia, ucciso quando e' stato necessario, e sempre soccorso i caduti. Instancabili, dopo ogni combattimento, sono sces a valle portando a spalle i corpi dei camerati. E, pervasi da un entusiasmo, tale che neutralizzava la fatica, questi soldati sono, volta volta, risaliti in linea, corsi sul campo a sfidare nuovamente il fuoco e la morte, con un pistola alla cintura, un barella tra le mani e la loro missione gloriosa di umanita' nell'idea.
E come i mitraglieri, i fucilieri, gli artiglieri e i portaferiti, cioe' i piu' esposti ail pericolo, anche le camicie nere del Genio, della Sanita', della sussistenza e delle salmerie hanno assolto al loro dovere con fede e disciplina. E l'operato di tutti e' stato necessario e parimenti apprezzabile. Giacche', mentre in linea i combattenti lottavano, nelle immediate retrovie i medici e gli infermieri curavano i feriti, gli zappatori aprivano le strade, i reparti del Genio radio-telegrafisti e i telefonisti provvedevano al regolare funzionamento delle linee di comunicazione, i conducenti e gli autisti percorrevano le strade da poco tracciate e portavano nella zona del combattimento i rifornimenti necessari all'azione e alla vittoria.
Tutti i diecimila legionari della Divisione primogenita, tutti gli italiani che per primi seppero rispondere presente, tutti i volontari che partirono per l'Africa quando l'Africa era ancora un pauroso enigma hanno dato prova della loro fede, della loro volonta' e del loro ardimento.
Piu' di tutti i morti. Piu' di tutti le schere dei gloriosi caduti, che con il loro sacrificio hanno glorificate le nostre bandiere, scrivendo con il loro sangue l'aggettivo "implacabile" sulle ambe che dominano la piana di Gabat Calamino'.
E noi, camerati e fratelli dei morti, attingiamo dal loro supremo sacrificio le energie per proseguire sulla via che il Duce ci ha tracciato e implacabili come i nostri martiri, implacabili come la nostra "23 Marzo" guardiamo all'avvenire con certezza di vittoria ed attendiamo che tuoni ancora il cannone e crepiti la mitraglia per vendicare i martiri e rinnovare, se sara' necessario, il loro sacrificio.
Dino Corsi