Il Telegrafo del 20 maggio 1936
Dal Belesa al trionfo finale

Adi Gherì, maggio.
3 ottobre XIV: albeggia. A scaglioni ordinati in formazione di guerra, la divisione guada il Belesa e muove i primi passi in territorio etiopico. Le acque del fiume amico mormorano la loro placida canzone in onore alle legioni che dopo cinque mesi di fremente quanto operosa attesa, marciano ora verso una meta ben precisata: l'Impero.
Con l'acqua fino alle caviglie, ai ginocchi ed anche fino su alla cintura, gli uomini passano. Fieri nel portamento, esuberanti di entusiasmo, forti della loro fede e delle loro armi, le Camicie Nere della divisione primogenita infrangono la barriera del vecchio confine ed iniziano la marcia.
Le colline di Zennai si profila all'orizzonte, dorata dalle prime luci del mattino. L'erta è affrontata con decisione. Senza sostare, senza riprender fiato, le centurie volano verso le cime dell'altura, ove si innalzano i "tucul", il "ghebì" e la chiesa copta del villaggio di Haià. Di tanto in tanto, qualcuno si sofferma a cogliere un fiore, a strappare una spiga di grano. Le mulattiere percorse dalle legioni sono fiancheggiate da campi di frumento. Qua e là tra i ciuffi di spighe sorridono i delicati fiorellini, le "farfalle dell'altopiano". E fiori multicolori e messi biondeggianti sono la prima nostra visione abissina. Una visione augurale, foriera di bene, di vittorie e di trionfi.
A mezzogiorno il tricolore sventola già sulla più alta costruzione del villaggio. Popolazione, clero copto, capi e notabili fanno atto di sottomissione ai nostri comandanti. La prima tappa è compiuta! A valle (si vede bene dall'alto) i "pontieri" del Genio imbrigliano le acque del Belesa, costruiscono il "guado" a rete metallica e pietra, mentre, più avanti, compagnie di zappatori ampliano la mulattiera e tracciano le prima pista camionale. Domani, le modeste carrette verranno su, poi sarà la volta dei camioncini ed infine, il giorno 5, i poderosi "34" vinceranno ostacoli, domineranno curve e pendenze e diranno che la via è definitivamente aperta per ben 20 chilometri oltre confine.
2 ottobre, il Belesa, Zennai, Haià, venti chilometri di strada...Ricordi. Ricordi di ieri, che sembrano quelli del passatoo tanto lontano. Sette mesi, solo sette mesi sono trascorsi. L'Impero Etiopico è crollato e sulle rovine del regno della barbarie e della schiavitù è già sorto il nuovo civile e potente Impero Romano.
Il tricolore, che nella prima giornata di azione, sventolò sul "tucul" di Haià e su quelli di tanti miseri villaggi indigeni, si alza oggi superbo sulla imperiale residenza del Negus Neghesti, sul palazzo dell'uomo che si era illuso, con un'illusione di pretta marca europea, di fermare la marcia di un Popolo giovane di forze e di entusiasmi, quanto vecchio di glorie e di armi.
In poco più di 200 giorni, l'esercito italiano ha vinto la guerra, occupato tutta l'Etiopia e detto al mondo la sua ultima e definitiva parola: Vittoria!
Dal Sudan al Mar Rosso dall'Eritrea alla Somalia, l'Africa Orientale è italiana. Dove ieri tuonò il cannnone risuona oggi la scoppiettio dei motori apportatori di civiltà e progresso; dove si combattè si spandono oggi le sementi e domani, le messi verranno su orgogliose e italianissime, come italianissmo fu il sangue degli Eroi, che hanno redenta la terra e consacrata la vitoria con la grandezza del loro sacrificio.

Contentarsi dell'onesto

Quando il contrordine venne a far crollare le nostre più belle speranze, quando si seppe in maniera ufficiale che la "23 Marzo" non avrebbe marciato su Addis Abeba, fu un'esplosione di disappunto.
"Contentarsi dell'onesto, ragazzi miei, disse un nostro ufficiale superiore. Non si può essere ovunque, non può far tutto la "23 Marzo". Noi abbiamo assolto ai nostri doveri, abbiamo dato il nostro valido contributo alla vittoria che già si profila completa, siamo tuttora in linea, lavoriamo ancor oggi per il successo finale ed i nostri colpi di piccone sono, come le cannonate dei camerati più fortunati, gli ultimi colpi di maglio che vibriamo sull'Impero Etiopico".
Belle parole! Giuste, Giustissime! Ma...(bennedetto "ma" che fa troppo pensare e ragionare) il sogno svanisce. Addis Abeba rimarrà per noi un desiderio a lungo accarezzato e mai realizzato; altri avranno la gioia grande, infinita, di porre per primi il piede nella Capitale Etiopica e noi la faremo forzatamente da spettatori nell'ultimo atto di questo grande dramma, che ci ha veduti per tanto tempo tra gli attori protagonisti.
I giorni volano, gli avvenimenti precipitano, ci si rassegna, ci si abitua all'idea e, lentamente, la serenità torna negli animi.
I lavori stradali, idrici e di fortificazione procedono incessanti e con ritmo sempre più accelerato ed aiutano a dimenticare e fanno sì che l'attesa sia calma e serena.
Ormai si attende la grande notizia, di giorno in giorno, di ora in ora. Tornando al campo dopo una giornata di fatica, si chiedono le novità e, sempre, speriamo nella bella risposta: Addis Abeba è presa.
I giorni volano. E vola il nostro pensiero. E volano le colonne autocarrate che marciano ormai nel cuore dell'Etiopia. Marciano i nostri camerati, vanno verso il trionfo finale, verso la luce della Vittoria. Noi, lontani, vigili sulle posizioni fortificate, attivi lungo il nastro stradale, seguiamo in spirito la marcia, contiamo i chilometri, bruciamo le tappe, andiamo avanti, avanti, sempre avanti!
Perchè il nostro motto è "tirare dritto" e la nostra volontà non conosce soste. Fermi, è vero, da oltre un mese, la nostra avanzata continua sulla strada che abbiamo costruita. Continua la nostra marcia attraverso le colonne di autocarri che solcano veloci la pista camionabile, attroverso le autobotti che vengono per acqua ai pozzi che noi abbiamo scavato nella roccia, ed infine la marcia della "23 Marzo" continua attraverso l'azione vittoriosa dei nostri fratelli, che hanno spiccato l'ultimo balzo dalle basi sorte da poco là dove esistevano ieri i centri di resistenza nemica, le poderose barriere dei Ras Etiopici, che le Legioni ed i Battaglioni hanno sfondate e travolte nell'impeto dell'assalto.
L'attesa, fatta di serena certezza, continuerà. Ma continuerà ancora epr poco. In una mattina lucente di sole, la notizia giungerà a noi, ci farà esultare, gioire, piangere di contento. E la grande nuova giunge. E' giunta!

Vittoria! Da prima la voce è vaga, imprecisa; poi prende consistenza, si estende, dilaga: "Addis Abeba è nostra. Da ieri" Si attende conferma, si cerca la conferma. E sono i cannoni dei forti che conermano la notiza. Improvvisamente il silenzio delle valli è rotto dal tuonare del cannone. Le batterie dei forti e dei forti di Socotà, Adi Gherì e Samrè sparano salve di gioia, salutano le armi italiane, la vittoria delle nostre armi. Gridano a piena voce l'esultanza per l'ultima, la più bella conquista.
La truppa è in delirio. Si impazzisce di gioia, si piangono lacrime di contentezza, ci si abbraccia, si grida l'entusiasmo, si canta la passione. Il momento è troppo bello per essere descritto. Le parole non possono e non potranno mai rendere il quadro esatto della Regione del Lasta pervasa dall'ondata di maschia gioia e di virile soddisfazione, così come la è in questo mattino di Maggio, pochi minuti dopo il giungere della notizia.
I lavori - ordine superiore - vengono, per la giornata, interrotti. I reparti fanno ritorno agli accampamenti e alle ridotte. Le colonne sfilano per la strada polverosa, salgono mulattiere, traversano pianori sabbiosi.
I canti giocondi risuonano nello spazio. La voce delle Camicie nere si innalza al cielo e si spande lontana. I legionari della prima divisione, i vincitori del Gabat, dell'Amba Aradam e del Tembien, salutano ora la vittoria, che si racchiude e simboleggia tutti i trionfi di ieri.
Alti, sulle teste dei militi, si alzano gli strumenti del lavoro. Badili e picconi scintillano al sole mentre la truppa cammina.
Continua il tuonare dei cannoni. Ora, anche il battaglione mitraglieri si associa al coro di esultanza. Le mitraglie cantano la canzone della pace, dopo aver tanto cantata quella della guerra.
Cannoni e mitraglie, badili e picconi. Armi e strumenti della nostra impresa, artefici primi della vittoria, siate benedetti! A voi l'Italia deve l'Impero, a voi noi dobbiamo la nostra gioia, la nostra gloria, il nostro orgoglio.
Vanno i reparti verso i campi ormai vicini. Si marcia in fretta, cantando. Le artiglierie e armi automatiche accompagnano le nostri canzoni, gli arnesi da sterratore si elevano sulle robuste braccia e sembrano tanti labari gloriosi. Gli uomini sono pallidi. La gioia, che può anche uccidere, commuove e trasfigura tutti. Ma sulle faccie, ove la commozione ha cancellate le traccie di tante fatiche, è una luce di soddisfazione e un'impronta di orgoglio.
Giungiamo agli attendamenti. Tutte le bandiere, tutti i gagiardetti e tutte le "fiamme" fanno mostra dei coloro colori e sventolano, mosse dalle brezza della vittoria.
Ci striangiamo in cerchio e, ebbri di giocondità, cantiamo ancora la canzone della nostra passione.
Il canto, solenne e potente, si innalza, sale su in alto, verso il cielo. L'eco, dalle gole delle vicine ambe, ripete le parole e le rimanda un pò cupe, ma mggiormante solenni. E sembra a noi che il canto sia realmente giunto in cielo. E pensiamo che non sia l'eco a rispondere, ma gli Eroi, i nostri fratelli caduti, che di lassù uniscono alle nostre le loro voci, per salutare anch'Essi quella vittoria che vollero e seppero far fiorire sul solo africano, gettando con il sacrificio di tante giovinezze eroiche il seme del trionfo e bagnando questo seme con il loro sangue generoso.


Dino Corsi