Il Telegrafo del 18 ottobre 1936
La festa di Mascal
Uoldia, ottobre
Con il mascal è tornato il bel tempo; sono terminate le piogge, s'inverdiscono i prati, germogliano le piante, tornano ai pascoli le mandrie dai lieti muggiti ed i greggi dagli allegri belati, gli uomini rivivono col sorgere della primavera africana: è festa! Mascal! Mascal! Mascal! L'invocazione a Dio, alla Croce - grido di fede e di esultanza degli etiopi copti - esce fremente da milioni di bocche e rimbomba festoso e solenne tra le ambe dell'altopiano: Mascal!
Ogni anno e da secoli il 27 dicembre si festeggia in Abissinia la giornata del Mascal. Dedicata alla Croce di Cristo, la festa acquista un particolare significato perchè ricorre al termine della stagione delle grandi pioggie. E così, insieme alla Religione, le genti di confessione copta inneggiano alla primavera che sorge. In un frammisto di riti e cerimonie che ricordano i tempi del paganesimo e della primitiva idolatria, tra il delirio di una folla pazza di religione, inebriata dall'idromele, esaltata dalle "fantasie" guerriere e giubilante per il bel tempo che è tornato, il Mascal ha inizio alla mezzanotte del giorno 26 e termina a quella del 27, dopo aver culminato, a mezzogiorno, nel fantasmagorico spattacolo del fuoco sacro. Un gigantesco falò, intorno al quale si intrecciano le danze più caratteristiche, vien fatto ardere in segno di gioia. E dalle fiamme, più o meno violente, e dal cader delle ceneri dall'una o dall'altra parte, si traggono i buoni o i cattivi auspici per l'avvenire.
L'anno scorso, a Gurà,in Eritrea, assistemmo alla festa nel campo di una brigata di ascari. Era imminente l'inizio delle operazioni di guerra - tutti lo sapevamo - ed i nostri fedeli soldati indigeni, a termine di una indiavolata fantasia, vollero che il fuoco sacro ardesse per dire a chi avrebbe arriso la vittoria. Si alzarono le fiamme, si sollevarono densi nuvoloni di fumo nero ed infine, tra il salmodiare dei sacerdoti, le salve di fucileria ed il canto delle donne, l'ammasso di legname profumato, ridotto ormai ad un braciere, crollò. Crollò verso Tai-Aimi, verso il confine, verso l'Abissinia. Fu un urlo, un urlo solo: Italia! Cadendo a sud, i carboni ardenti avevano decretata la vittoria italiana. E gli ascari, le donne indigene e gli stessi sacerdoti, gridavano la loro esultanza per la profezia più bella.
Rullarono festosi i tamburi, i suonatori di "itza" e di corno trassero dai loro strumenti le melodie più soavi, i sacerdoti alzarono al cielo le Croci d'oro e di argento e gli ascari con le loro donne, improvvisarono la fantasia della vittoria. Perchè la vittoria era ormai certa. Ed essi avevano da ciò la sicurezza, dopo che il fuoco sacro aveva decretata la fine del Leone di Giuda.
Noi - i nazionali - avevamo quella bella sicurezza da mesi, da quando cioè il Duce ci ordinò di picchiar sodo, ma tuttavia, nessuno seppe rimaner impassibile di fronte alla volontà del caso ed anche noi partecipammo all'esultanza degli ascari e, pur senza danzare la fantasia, qualcuno unì la sua voce a quelle degli indigeni per gridare al cielo la sacra invocazione: Mascal! le voci italiane, in quella particolare circostanza, non furono una stonatura, perchè Mascal o Croce che dir si voglia, era sempre nel nome del simbolo cristiano, giunto fin qua da Roma, chè il fuoco sacro aveva predestinato la vittoria della Armi Italiane, Romane e Cristiane.
Vita dell'Abissinia Italiana
Oggi, a distanza di un anno, abbiamo riveduta la festa. Nuovamente sono arsi i falò e nuovamente i sacri fuochi hano formulato la profezia per l'avvenire. Le genti etiopiche, a secodo del giudizio delle fiamme, hanno qua o là gioito o sofferto. Anche sofferti perchè non sempre il fuoco arde come dovrebbe; talvolta la legna può esser bagnata, ed allora tanto fumo...e poco raccolto, pensano gli abissini.
E maledicono il destino, il diavolo e il Negus; il Negus che "cofù, cofù" (cattivo, cattivo) tolse gli uomini alla terra per mandarli a combattere e morire contro gli italiani. Ma sanno gli abissini che l'italiano è "subulo" (buono) e che mai farà mancare ai sudditi fedeli la dura per la "borghutta" e l'orzo per la birra. Questo sanno i vecchi abissini; ed hanno compreso che dove si librano le aquile di Roma l'avvenire è certo ad onta di tutti i più contrari responsi di centomila e passa fuochi sacri ardenti sull'altopiano.
Se il fuoco non arde, e le ceneri cadono a monte invece che a valle o viceversa, non conta più ormai. Perchè ci sono gli italiani e, con questi, la vita tranquilla, il lavoro redditizio, il benessere, la salute, la pace. E' festa: Mascal! Mascal! Mascal!
E' Festa! Fantasia! Ed i corpi si muovono, gli arti si divincolano e la nenia caratteristica degli etiopi accompagna le danze. Una nenia lenta, cadenzata e sempre sullo stesso motivo. Solo le parole variano. Ora per esaltare la fede, ora per inneggiare al sole, ora infine, per cantare la riconoscenza a chi queste genti devono la libertà e il bene:
"Mascal! Mascal! Mascal!
Prima Iddio, poi Mussolini,
Mascal!
Guitana (signore) Mussolini
ammazza il diavolo,
fa fuggire le fiere,
Mascal!
Ci da' l'orzo e la dura,
il lavoro e la pace,
Mascal!
Son venuti dal mare,
son discesi dal cielo,
gli ascari di Mussolini
Mascal!
Iddio li benedica,
benedica l'Italia,
Mascal!
Prima Iddio, poi Mussolini,
Mascal! Mascal! Mascal!
La traduzione dell'amariguà è libera, come liberi sono i versi improvvisati dai menestrelli "galla"; ma il significato è questo. Poche parole, semplici e mal messe, che fanno il più bel'inno innalzato da queste genti all'Italia ed a chi ne guida le sorti.
Per ventiquattr'ore abbiamo vissuto in mezzo ad una folla festante. Ed abbiamo preso parte alla festa, ora sedendo a terra nell'interno di un tucul, intorno ad una zucca secca ripiena di idromele, ora tra i tronchi delle euforbie, attorniati da un cerchio di danzatrici nere che improvvsavano per noi le più sfrenate fantasie, ed infine nella grande piazza del mercato, ove, a mezzogiorno, si è acceso il sacro fuoco del Mescal.
Dalla mezzanotte all'alba, la collina di Uoldia e la cerchia di montagne che chiudeva la regione in una morsa di roccia, sono apparse come un nuovo cielo cosparso di stelle. Dalle sommità delle ambe al fondo dei valloni ardevano i falò accesi attorno ad ogni capanna. Punti rossi, luminosi, centinaia e centinaia di stelle risplendenti, fiaccole accese in segno di festa.
Una notte senza sonno
Fino al mattino i villaggi hanno vissute ore di vita quasi orgiastica. Non v'era tucul ove non ardesse un braciere esalante un profumo di incenso; non v'era capanna ove gli indigeni, seminudi ed ebbri di fanatismo religioso quanto di bevande alcooliche, non intrecciassero danze e non improvvisassero fantasie. E nelle piazze dei villaggi risuonavano gioconde le note degli strumenti dei suonatori girovaghi, rullavano incessamente i tamburi di pelle di pleopardo, mentre, nelle vicine selve, le fiere, là ricacciate dai fuochi e dal frastuono, emettevano ruggiti, come ad accompagnamento e completamento dell'eccezionale concerto di grida, di risa, di canti e di suoni.
Alle prime luci dell'alba il delirio è sembrato calmarsi. Ma per poco. senza predenr riposo, gli abissini si sono dedicati alla preghiera. Due ore di mistico raccoglimento e poi, di nuovo, l'orgiastica e fantasiosa ebrezza ha ripreso il sopravvento. Lungo la strada - la strada costruita da noi legionari durante la stagione delle piogge - è stato un susseguirsi di gruppi festanti - donne, bambini, uomini - che svontolando bandiere tricolori ed erigendo in alto le croci del Mescal, venivano sin nei pressi degli accampamenti, varcavano le linee dei reticolati, s'internavano tra i muriccioli dei fortini e delle ridotte ed, ovunque, si soffermavano per dar sfogo al loro entusiasmo. E le fantasie si susseguivano alle fantasie. Cori, concerti e danze. Inni di lode al soldato italiano. odi di riconoscenza all'Italia e al Duce e rumorose e movimentate proteste di affetto, di fedeltà e di stima alla Patria lontana.
La danza sacra
A mezzogiorno, intorno al fuoco sacro, l'entusiasmo e l'ebrezza hanno raggiunto il parossismo. Il "deggiac", capo della Regione, ha incendiato il falò. Poi i rappresentanti della chiesa copta, nei loro caratteristici costumi, adorni di ori e broccati, hanno dato inizio alla danza sacra. I sacerdoti sono stati seguiti dalle donne danzatrici: alcune centinaia di fanciulle, dai corpi modellati mirabilmente, si sono esibite in virtuosismi tali da far invidia alla più appassionata seguace di Tersicore; gli armati della locale "banda" hanno sparato migliaia di colpi a salve, in segno di giubilo, fino a che (con la complicità di una latta di benzina, opportunamente vuotata da un milite sul falò), il rogo è arso e le fiamme salienti al cielo hanno detto alle genti "galla" che la fortuna è con essi, che i raccolti saranno abbondanti e che, mercè la protezione Divina, la Regione godrà del benesse avvenire.
E, intorno ai carboni e alle ceneri del fuoco sacro, gli indigeni hanno effettuate le più belle fantasie della festa. Per un'ora si è danzato, si sono gridati gli Osanna al Mascal, si è ripetuta ai quattro venti la lieta novella. Il fuoco sacro ha decretato la fertilità delle terre, la ricchezza e la tranquillità delle genti etiopiche.
Ardevano ancora i tizzoni della pira, non s'era spento l'eco dei canti, quando, improvvisa, una centuria di ragazzi faceva irruzione nel campo della festa: cento giovinetti neri, in pantaloncini "cachi", camicciotto bianco e fuciacca nera, lietissimi in volto, agili nelle movenze e fieri nel portamento, facevano cerchio al falò incenerito e, assertori di una fede nuova per le genti etiopiche, cantavano festanti la canzone appena appresa nella scuola che la "23 Marzo" - inarrivabile in tutto - ha impiantato a Uoldia:
Giovinezza, giovinezza
primavera di bellezza...
E, cantando, i ragazzi di Uoldia corrono intorno al fuoco sacro. Corrono e saltellano come bersaglieri. Fantasia? No! Realtà! Realtà viva, viva attraverso questi "balilla" neri, che, nati in un regno di barbarie, vivono oggi la loro adolescenza nel clima del nuovo Impero Romano e, riconoscenti al Re Imperatore, al Duce e all'Italia, cantano "Giovinezza" con lo stesso entusiasmo con il quale inneggiano e plaudono al Mascal, alla Croce di Cristo, simbolo di tutte le genti, che da Roma hanno avuto il dono Divino della civiltà italiana.
Dino Corsi