La presa del potere a seguito della Marcia su Roma aveva chiuso una fase di particolare tensione sociale, che in alcuni tratti aveva assunto l'aspetto di una vera e propria guerra civile; le squadre di azione, strumento per mezzo del quale il Fascismo era riuscito a conquistare il potere, che avevano inquadrato oltre trentamila elementi, rappresentavano nel 1923 al tempo stesso l'espressione della base militante e uno strumento di lotta che, terminata la fase rivoluzionaria, era necessario ricondurre entro una struttura disciplinata e controllata.
Con una deliberazione del Gran Consiglio del 12 gennaio 1923 veniva approvata la relazione del Generale Emilio De Bono che era stato incaricato di studiare la costituzione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale; veniva quindi deciso che fossero immediatamente completati gli studi per la sua formazione, organizzazione ed inquadramento.
Il Regio Decreto n. 31 del 14 gennaio 1923, entrato in vigore il 1° febbraio 1923 e poi convertito in legge con la n. 473 del 17 aprile 1925, istituiva la Milizia al servizio di Dio e della Patria agli ordini del Capo del Governo. Tra i principali compiti affidati, la Milizia doveva provvedere, in concorso con i corpi armati per la pubblica sicurezza e con il Regio esercito, a mantenere all'interno l'ordine pubblico ed a preparare e conservare inquadrati i cittadini per la difesa degli interessi dell'Italia nel mondo (1).
Il successivo Regio Decreto n. 832 dell’8 marzo approvava il regolamento di disciplina e quello concernente l’uniforme. Alla Milizia, al servizio di Dio e della Patria italiana, ed agli ordini del Capo del Governo, veniva riconosciuta una continuità, almeno ideale, con le squadre di azione, tanto che era stabilito che "pur mantenendosi nell'orbita stretta dei doveri assegnatile, si basa sulle tradizioni della milizia fascista". Sull'onda emotiva dell'interventismo e della mobilitazione del primo conflitto mondiale, i caratteri che avevano contraddistinto la lotta squadrista venivano palesemente richiamati, con il chiaro precetto che la Milizia rappresentava una "emanazione dell'Italia combattente e vittoriosa e non ammette perciò nel suo seno quei cittadini che con procacciati esoneri di guerra si sottrassero al compimento del più sacro dovere” (2).
La figura del milite, quale era identificata dal Regolamento di disciplina, appariva un vero e proprio paradigma del soldato politico, che "serve l'Italia in mistica purità di spirito, con fede incrollabile e inflessibile volontà; sprezza, al pari d'ogni altra viltà, la prudenza che nasce dall'opportunismo; ambisce, come premio sommo alla sua fede, il sacrificio". Annesso al decreto n. 832 era inoltre il regolamento sull'uniforme, che rappresentò il primo di una serie di norme e istruzioni che modificarono nel corso degli anni le dotazioni degli appartenenti alla Milizia, fino alle ultime disposizioni sull'uniforme da parte del Comando Generale nel 1941.
Il quadro normativo fu rapidamente completato nel corso del 1923. Dapprima con il Regio decreto legge n. 967 del 15 marzo, che stabiliva i gradi per la Milizia corrispondenti a quelli in vigore presso il Regio Esercito: nella fase iniziale erano previste, per la truppa, esclusivamente le figura di camicia nera corrispondente al grado di soldato o di allievo carabiniere Reale, e di caposquadra, corrispondente al grado di sergente o di vice brigadiere dei Reali carabinieri, mentre per gli ufficiali, i gradi di capo manipolo, centu-rione, seniore, console e console generale corrispondevano ai gradi di tenente, capitano, maggiore, colonnello e generale di brigata del Regio esercito (3).
Con il Regio decreto n. 1880 del 23 agosto venivano regolate le disposizioni per le chiamate in servizio degli appartenenti alla milizia, le quali "per ragioni di ordine pubblico, in caso di pubbliche calamità, per istruzioni, per riviste o parate, sono considerate, a tutti gli effetti, come richiami in servizio militare” (4) ed era stabilito che nel corso di tali chiamate in servizio essi mantenessero il proprio posto di lavoro, sia pubblico che privato.
Infine il Regio Decreto n. 1881 dello stesso 23 agosto regolamentava la disciplina sul porto d'armi per i militi comandati in servizio, autorizzandoli ad essere armati di moschetto o rivoltella, secondo le esigenze del servizio stesso (5).
All'interno di questo primo quadro normativo, oggetto di continue riforme ed adeguamenti alle mutate esigenze nel corso degli anni successivi, che ne regolava la struttura, l'organizzazione e le finalità, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale rappresentava l'unica formazione a carattere ed inquadramento militare permessa a latere delle forze armate dello Stato, come previsto espressamente dall'articolo 9 del Regio decreto 31/1923. Il ricordo dell'esperienza della appena conclusa guerra civile e della Marcia su Roma non era ancora assopito, ed appariva in tale senso evidente la finalità di procedere ad una costituzionalizzazione della Milizia e perseguire una strategia di rottura con l'eredità squadrista.
La sua costituzione fu per Mussolini funzionale a conservare a sua disposizione una forza armata di partito, decisa e fedele, da usare contro qualsiasi forma di opposizione che non fosse mera-mente verbale e che lo garantisse da eventuali tentativi di riscossa antifascista; normalizzare il fenomeno squadrista, ridurlo fermamente sotto il suo controllo, togliendogli quel carattere di autono-mia tendenzialmente anarchica che continuava a contraddistinguerlo – soprattutto in certe zone dell’Italia centrale e settentrionale - che poteva rappresentare una minaccia per la sua stessa egemonia all’interno del fascismo.
Tale processo apparve ancora più chiaro con il Regio decreto n. 1292 del 4 agosto 1924 che stabiliva il nuovo ordinamento della M.V.S.N. ad appena un anno dalla sua costituzione. La Milizia diveniva infatti forza armata dello Stato; i componenti, al pari degli appartenenti al Regio Esercito, giuravano fedeltà al Re ed erano soggetti alle stesse disposizioni disciplinali e penali previste per i componenti delle forze armate. Il Comando Generale riceveva direttive ed ordini, per quanto concerneva ordinamento, addestramento, mobilitazione ed impiego in guerra, dal Ministero della Guerra, dallo Stato Maggiore Generale, dallo Stato Maggiore del Regio Esercito.
L'introduzione del nuovo ordinamento della Milizia rappresentò il vero e proprio paradigma della normalizzazione del fascismo movimento.
In questo senso non deve essere sottostimata la preoccupazione che animò il regime in merito a quelle che avrebbero potuto essere le reazione dei quadri della Milizia; nei giorni immediatamente precedenti l'entrata in vigore del nuovo ordinamento, infatti, i prefetti di tutta Italia vennero mobilitati affinchè relazionassero in merito ai sentimenti in seno ai reparti direttamente Mussolini, preoccupato di annotare il grado di malumore emerso nelle differenti legioni. Il 3 agosto il Prefetto Francio si affrettava a telegrafare a Roma che presso gli ambienti della Milizia a Siena i provvedimenti del Governo avessero incontrato una favorevole impressione (6).
Il reclutamento era stabilito come volontario ed i limiti di età per appartenere alla M.V.S.N. fissati tra i 17 ed i 50 anni per i militi tratti dai cittadini del Regno che ne facciano domanda, che rispondessero a speciali condizioni di idoneità fisica, morale e politica (7).
Tra i compiti assegnati alla Milizia dal nuovo ordinamento contenuto nel Regio decreto 1292 spiccava anche quello di provvedere all’istruzione premilitare per il Regio Esercito, alla diretta dipendenza del Ministero della guerra e delle autorità militari territoriali. Una funzione che essa svolse con crescente e sempre maggiore intensità a partire dal 1926 con i primi provvedimenti legislativi che istituivano le organizzazioni giovanili del Partito, fino a divenirne ben presto elemento fondamentale e primo soggetto promotore.
Erano inoltre fissati in 95 il numero di legioni e stabilita la struttura territoriale e gerarchica, con un Comando Generale, 12 Comandi di Zona e 3 Comandi di Gruppo autonomo di legioni. L'ordinamento era stabilito su Legioni, Coorti, Centurie e Manipoli, circa corrispondenti ai Reggimenti, Battaglioni, Compagnie e Plotoni dell'Esercito.
Anche se la struttura subì negli anni successivi molteplici modifiche, dapprima con la riforma del settembre 1929, che prevedeva l'eliminazione delle Zone e la costituzione di quattro Raggruppamenti, Gruppi Battaglioni CC.NN. e di due comandi CC.NN. delle isole, poi con quella dell'ottobre del 1935 che introduceva nuovamente i Comandi di Zona e i Comandi di Gruppi di battaglioni, fino alla definitiva del gennaio 1939, quando fu ripristinata l'originaria ripartizione del 1923 su Zone, Gruppi legioni e legioni autonome, il nominativo di Legione rimase costante nel tempo.
Inquadrata nel XIX Gruppo Legioni della VIII Zona Toscana con sede a Firenze, la 97.a Legione Senese era strutturata su sei coorti, quattri delle quali distaccate nel territorio provinciale, la seconda a Poggibonsi, la terza a Piancastagnaio, a Montepulciano, sede della quarta ed a Trequanda, ove era ubicata la quinta (8).
Per tutti gli anni di esistenza della M.V.S.N., la Legione rappresentò la base ed il deposito, funzionando da reggimento e da distretto di reclutamento. Ogni Legione ebbe un numero, un nome, una sede, una zona territoriale di reclutamento; e queste caratteristiche rimasero immutate durante i venti anni di vita della Milizia.
Questo inquadramento di tipo provinciale ha indubbiamente costituito uno dei più importanti caratteri di forza e di coesione dei reparti della Milizia che, in pace ed in guerra, erano formati dagli stessi uomini, inquadrati dagli stessi ufficiali: tutta gente nata e vissuta sulla stessa terra, accomunata dalle medesime usanze e tradizioni, parlante lo stesso dialetto, unita spesso da valida amicizia o, almeno, da vecchia conoscenza.
Il rapporto con le altre forze armate dello Stato, improntato nelle intenzioni del regime ad un massimo grado di collaborazione e di coesione, rappresentò un aspetto peculiare i cui effetti si protrassero oltre i primi anni di vita dalla costituzione della Milizia, ed in un certo senso si proiettarono fino all'epilogo dell'8 settembre 1943. Non mancarono nel corso dei due decenni di vita della M.V.S.N. episodi ed opportunità di collaborazione; fu persino raggiunto, soprattutto nel periodo della campagna in Africa Orientale, un certo grado di cameratismo. Tuttavia, di là da un’apparente e completa coesione, alimentata anche dai proclami e delle manifestazioni di fratellanza e di cameratismo espressi nel corso delle manifestazioni pubbliche in cui reparti delle camicie nere e dell'esercito si trovavano affiancate, tra Esercito e Milizia rimase sempre una strisciante ambiguità; un indefinito senso di superiorità da parte del primo ed una diffidenza che si palesò clamorosamente nel corso delle ultime fasi della guerra mondiale. Diffidenza, coniugata con una continua ambizione di essere accolta a pieno titolo in seno alle forze armate dello Stato, che animarono fin dall'inizio la stessa Milizia.
A metà degli anni Venti in Libia la Milizia aveva fatto il proprio esordio in uno scenario bellico, dapprima con la centuria pionieri, la coorte tripolitana e quella cirenaica, primi reparti impiegati al fianco delle altre forze armate, nel corso delle operazioni per la riconquista del territorio libico caduto in mano ai ribelli. A questi erano rapidamente seguiti la 132° Legione Monte Velino di Avezzano, la 171° Legione Vespri di Palermo e la 176° Legione Cacciatori - Guide di Sardegna di Cagliari, con una forza complessiva di 138 ufficiali e 2733 militi agli ordini del Console Generale Vittorio Vernè.
Il primo impiego di unità della Milizia aveva reso necessario alcune modifiche ordinamentali, quali l'istituzione presso i reparti del grado di capo squadra (9) e l'adeguamento normativo relativo agli obblighi di servizio militare per gli incorporati nei reparti della Milizia dislocati nelle colonie (10), ma il principale provvedimento legislativo fu quello della costituzione di due legioni permanenti, la 1.a Legione Oea e la 2.a Legione Berenice, il 1 maggio 1924 (11).
Tralasciando il giudizio sull'efficacia operativa delle legioni libiche della Milizia, oggetto di opinioni contraddittorie da parte degli studiosi che si siano cimentati nell’analisi delle operazioni di polizia coloniale, queste significarono in ogni caso l'inizio della coesistenza e della collaborazione operativa tra Milizia e forze armate; inquadrata nella centuria di fucilieri toscani della Legione Berenice, una squadra composta di militi provenienti dalla 97.a Legione agli ordini del caposquadra Vincenzo Miraglia di Poggibonsi rappresentò il primo nucleo di legionari della Provincia operanti in operazioni belliche.
L'attrazione esercitata dalle appena costituite unità della Milizia non doveva essere stata particolarmente irresistibile; anche a seguito della pubblicazione, durante il maggio 1926, del bando di arruolamento per i reparti libici della M.V.S.N. da parte dell'organo della Federazione provinciale senese, la mobilitazione dei volontari non fu giudicata soddisfacente, tanto che nel marzo successivo il comando della 97.a Legione diramò ai comandi locali una circolare per sollecitare nuovi arruolamenti per le legioni libiche permanenti (12).
Nel corso dei nove anni di operazioni nel territorio libico, circa venti volontari provenienti dalla 97.a Legione furono arruolati nelle divisioni libiche della Milizia (13).
La serie di regolamenti che ne stabilivano l'ordinamento e ne disciplinavano il funzionamento, necessari a dotare l'organizzazione di una struttura completa ed articolata, componevano allo stesso tempo un quadro normativo ed un compromesso tra la necessità di mantenere una continuità e normalizzare allo stesso tempo l'esperienza movimentista.
Anche la 97.a Legione M.V.S.N. Senese, comandata alla sua nascita dal Console Cesare Borgia, traeva buona parte dei reparti dagli squadristi delle disciolte formazioni fasciste. La Provincia di Siena, pur rimasta sostanzialmente immune dalle violenze della guerra civile che avevano caratterizzato anche i territori limitrofi, aveva registrato una partecipazione massiccia ed una larga adesione allo squadrismo: in occasione della mobilitazione dell'ottobre 1922, la città era stata occupata con risolutezza dalle squadre d'azione, ed una colonna di oltre 3.000 camicie nere della Provincia era stata la prima a mettersi in marcia alla volta di Roma, giungendo a Monterotondo il giorno 27.
Confrontando gli elenchi degli squadristi della provincia di Siena che parteciparono alla marcia su Roma con quelli dei militi che furono inquadrati negli anni successivi nei reparti operativi della legione senese, si evidenzia infatti una marcata continuità. Alcuni di loro furono mobilitati con il 97° battaglione impegnato in Africa Orientale nel triennio 1937-1939 e nel corso della seconda guerra mondiale: Amedeo Bigliazzi e Bruno Lenti del plotone Folgore, Ferruccio Piazzesi del plotone Spada e Bruno Bianciardi della squadra Pannilunghi, mobilitati nel 1940 con la 297.a coorte territoriale, Gino Tozzi e Alberto Tailetti della squadra Tricolore, in seguito comandante della legione dal maggio 1928 al settembre 1929 il primo e capo manipolo il secondo, Francesco Pellati, squadrista della Tricolore, poi mobilitato con il battaglione camicie nere nel 1937 e nel 1941; Spartaco Marsili e Cesare Pepi appartenenti alla squadra Corridoni e successivamente caposquadra in Africa Orientale con il battaglione camicie nere il primo e comandante della 1.a compagnia del 97° il secondo.
Sempre appartenenti alla Corridoni, Francesco Bassi, poi capo manipolo e Silvio Inglesi, milite del battaglione camicie nere nel 1941. Inoltre Furio Terzucci, Gino Muzzi e Orlando Boldrini, mobilitati con il 97° battaglione camicie nere in Africa Orientale; Bruno Crocchi della quinta centuria, ufficiale del 97° battaglione nella seconda guerra mondiale, mobilitato assieme a Osvaldo Piochi, Alberto Marchi, Ilio Meucci, Giuseppe Pacini, Raffaello Paperini, Gino Capresi, Mario Grandi, Amos Provvedi e Nazareno Rossi.
Infine Alfredo Amoretti, Pasquino Bacci, Zeffiro Baiocchi, Ernesto Baldi, Nello Ballati, Danilo Bartalini, Carlo Bartalucci, Giovanni Bellini, Martino Bindocci, Bruno Burroni, Antonio Canaletti, Primo Capanni, Vittorio Chini, Giuseppe Cianferotti, Adelindo Cini, Francesco Domenichini, Aroldo Felici, Socrate Filiali, Pietro Galletti, Giovanni Galli, Riccardo Ghezzi, Vittorio Giannettoni, Arturo Guerrini, Michele Impiani, Alighiero Lazzi, Giovanni Malentacchi, Pierino Martinelli, Ezio Mattei, Primo Naldi, Corrado Nannini, Moderato Papini, Renato Paradisi, Giocondo Petrazzi, Giuseppe Petrioli, Telemaco Pieragnoli, Vittorio Sonnini, Antonio Tassi, Alberto Terrosi, Sistemo Ticci, Agostino Tommasi, Amelio Trapassi, Elia Verdiani ed Italo Viligiardi, tutti mobilitati con la 297.a coorte territoriale nel 1940.
Alla luce di una così profonda eredità movimentista, appariva inevitabile che il percorso di normalizzazione inteso dal regime finisse per entrare in contrasto più o meno palese con le istanze più radicali a questo meno inclini. Non sporadici, in tale senso, furono gli episodi di aperto dissenso con il processo di normalizzazione della Milizia Volontaria. L'episodio più significativo furono le dimissioni del Seniore Angelo Bencini dalla carica di comandante della II Coorte valdelsana nel gennaio 1925. Figura legata a Mino Maccari ed al gruppo del "Selvaggio", settimanale fondato dallo stesso Bencini, rappresentò il paradigma di un’insofferenza nei confronti del processo di conversione e normalizzazione delle squadre di azione nel territorio della Provincia. Il 16 gennaio 1925, l'ufficiale comunicava le proprie dimissioni al comandante della Legione, Proconsole Giovanni Mascaretti, rivolgendo alle Camicie Nere della II Coorte un breve messaggio dal quale traspariva il disagio nei confronti del nuovo inquadramento della Milizia, ed ottenendo di continuare a militare come semplice Camicia Nera (14).
Particolarmente indicativo per cogliere il malcontento e la difficoltà ad adeguardi al nuovo indirizzi disciplinare dell milizia fu la riproposizione pubblicata sul bisettimanale Il Popolo senese nel maggio 1926 dell'articolo del quotidiano romano La Tribuna "Squadrismo in ritardo", nel quale veniva polemicamente denunciato che, pur a distanza di oltre un anno dalla fascistizzazione dello Stato, ancora si verificassero episodi di inequivocabile prevaricazione da parte di appartenenti alla M.V.S.N. e di squadrismo gratuito che finivano per rendere difficoltoso il percorso di consolidamento dell'immagine della Milizia: un fenomeno che da un lato destava una comprensibile preoccupazione nel regime, impegnato nella campagna di costituzionalizzazione del fascismo, e che dall'altro confermava un malessere diffuso all'interno del movimento (15). Gli episodi di prevaricazioni ed interferenze in questioni private da parte di appartenenti alla Milizia dovettero rappresentare un problema noto da tempo ed affatto confinato a singole realtà locali, tanto da meritare fin dal 1923 una presa di posizione netta da parte delle massime gerarchie; con una circolare diretta a tutti i comandi di Legione il Comando Generale aveva condannato tali fenomenti, attribuendo ai comandanti di Zona la diretta responsabilità di farli cessare immediatamente.
Alla Legione furono intanto affidati i primi compiti di mantenimento dell'ordine pubblico e di controllo del territorio, in concorso con le forze armate e quelle di pubblica sicurezza. In occasione delle elezioni del 1924 e della visita di Vittorio Emanuele III a Siena nel settembre 1924, ripetuta a Siena e Colle di Val d'Elsa dal 4 al 6 novembre 1925, la legione fu coinvolta con compiti di mantenimento dell'ordine pubblico e vigilanza che disimpegnò positivamente: durante il soggiorno del re, la Legione fu chiamata ad assolvere servizi a Siena, Poggibonsi e Colle di Val d'Elsa, tali da meritarsi l'elogio del comandante Giovanni Mascaretti (16).
Anche quello relativo ai compiti di contributo all'ordine pubblico rappresentò un motivo di malumore tra le fila della Milizia per le limitazioni cui essa era soggetta nell'adempimento del servizio; tra le accuse e le rimostranze più frequenti vi era quella relativa al ruolo spesso marginale assegnato ai militi in occasioni di servizio, e non mancarono gli episodi di aperta denuncia.
In un articolo di Giuseppe Martucci pubblicato su «Milizia fasci-sta», ripreso integralmente dall'organo della Federazione senese il 23 agosto 1926, veniva rivolta una critica feroce nei confronti della situazione. Una severa requisitoria dalla quale traspariva il malumore nei confronti di un rapporto di ingiustificata subordinazione verso le altre forze armate e di avvilimento del ruolo stesso della Milizia (17).
I rapporti con le altre forze armate, motivo di risentimento fin dalla istituzione della Milizia, nei confronti del quale la propaganda e gli sforzi persuasivi della retorica del regime avevano avuto uno scarso successo, si inserivano nel generale malessere ancora largamente diffuso all'interno dei reparti a causa del processo di normalizzazione della Milizia che aveva scosso profondamente la stessa istituzione.
Significative, per chiarire il sentimento nei confronti delle forze armate, le considerazioni espresse in un articolo pubblicato il 19 novembre 1925 su "Il Popolo senese”, nel quale si dava notizia delle disposizioni impartite dal Comando generale dei Carabinieri affinché fosse reso obbligatorio il saluto tra ufficiali e militi dell'Arma e della Milizia e non si lesinava il biasimo verso l’atteggiamento tenuto nei confronti di reparti di camicie nere.
L'articolo, pubblicato sull'organo della Federazione senese dei Fasci di Combattimento e quindi certamente approvato preventivamente, evidenziava un certo rancore diffuso tra i militi, plaudendo al provvedimento che poneva termine ad uno stato di disagio, che durava da tempo e paventando che, perdurando, sarebbe potuto sbocciare in qualche increscioso incidente (18).
Il Comando Generale della M.V.S.N., con la mediazione del Ministero della Guerra, si adoperò per ottenere analoghe disposizioni, che furono impartite nelle settimane successive ai reparti della Regia Guardia di Finanza, dell’Esercito e della Regia Aeronautica, per i quali fu reso obbligatorio il saluto con i reparti della Milizia; provvedimenti che non mutarono l’umore ed il disagio diffusi tra i reparti delle Legioni ma che stemperarono, agli occhi delle gerarche fasciste, le possibilità di ulteriore malcontento e diffidenza.
L’organizzazione e le stesse finalità della M.V.S.N. rimanevano ancora in un quadro di incertezza e provvisorietà: organo statale ed istituzionalizzato che era percepito tuttavia come entità estranea alle Forze Armate, emanazione del Regime ma da esso non adeguatamente supportato e valorizzato, erede del fascismo movimento con il quale aveva reciso ogni continuità ideale, la Milizia si dibatteva nell’aleatorietà per il proprio avvenire e l’ansietà dei quadri e dei reparti, tanto da richiedere e sollecitare adeguate rassicurazioni da parte dei comandi.
Lo stesso Comando Generale fu impegnato in serrate e continue emanazioni di circolari ed informative ai Comandi di Zona e periferici per dirimere le questioni più disparate, generate e favorite dall’incertezza dell’ordinamento della Milizia: dalla specificazione che, a seguito di continue richieste giunte al Comando Generale, non era possibile ammettere le domande per ottenere l’iscrizione alla Milizia da parte di donne, al richiamo sulla necessità di non evadere le richieste di impiego di reparti in servizio di ordine pubblico per manifestazioni ed eventi locali che non fossero approvati dalle autorità politiche, fino a ribadire che i limiti di età dei richiedenti l’iscrizione alla M.V.S.N. non potessero essere emendati in base al giudizio soggettivo dei singoli reparti.
Gli impieghi cui era stata destinata non presupponevano che vi fosse la velleità di trasformare la Milizia in un soggetto con esclusive mansioni di polizia giudiziaria, tuttavia tra i reparti era opinione largamente diffusa che non fosse stato ancora chiarito e rispettato il contesto di una legittima autonomia nell'adempimento delle proprie funzioni, che solo in parte riguardavano anche quelle relative all'ordine pubblico. Lo stesso territorio provinciale inoltre non poteva dirsi del tutto normalizzato: episodi di polizia politica e di semplice cronaca nei quali erano coinvolti militi rimanevano presenti, pur se con minore frequenza rispetto ad altre realtà italiane.
L'11 novembre 1925 a Montepulciano i Caposquadra Umberto Peruzzi e Emilio Giovagnoli e la Camicia Nera Silvio Crociani arrestavano un antifascista emigrato in Belgio, Agostino Capitani, in possesso di manifesti e materiale di propaganda del Partito comunista, meritandosi l'elogio solenne del comandante della VIII Zona, generale Santi Ceccherini. La sera del 29 dicembre 1925, mentre si trovava con la propria autovettura tra Abbadia San Salvatore e Piancastagnaio, il Seniore Mario Piccinelli, fu fatto oggetto di due colpi di rivoltella sparati da ignoti nascosti lungo la strada; sia l'ufficiale che l'altro passegge-ro e l'autista, Luigi Crestini, rimasero illesi e sull'episodio investiga-rono a lungo i carabinieri, senza che fossero tuttavia identificati i responsabili.
Il 18 aprile 1926 in località Vivo d'Orcia il caposquadra Alessandro Palmieri, intervenuto per identificare i fratelli Aldo, Antonio ed Alessandro Rossi che aveva offeso in luogo pubblico Mussolini, veniva aggredito da un gruppo di antifascisti, finendo in ospedale con serie ferite, una delle quali alla testa; uno dei fratelli, Antonio, veniva rintracciato ed arrestato, mentre gli altri due si davano alla latitanza; nel corso delle indagini vennero arrestati e tradotti in carcere a Montepulciano altri sette partecipanti all'aggressione.