Il Telegrafo del 25 marzo 1936
Dall'Amba infuocata alle sponde del Ghevŕ
Valle del Gheva' (Tembien), febbraio
Con il viatico eccezionale di un vibrante ordine del giorno, rivolto da S.A.R. il Duce di Pistoia alle schiere dei legionari, le camicie nere della "23 Marzo" hanno raggiunto il fiume Gheva' e si apprestano ora ad incontrare e a battere il nemico.
L'Augusto Comandante nostro ci ha rivolto parole di plauso, di incitamento e di riconoscimento dei meriti acquisiti e dei sacrifici superati meravigliosamente da tutti i militi della Divisione "Implacabile". Ed ha, con parole chiare, data assicurazione che la battaglia non verra' a mancare, che il nemico sara' affrontato e travolto negli ultimi giorni di febbraio o nei primi di marzo.
Cosi', tra il tuonare dei cannoni e il crepitare della mitraglia e della fucileria, la data oggli gloriosa della battaglia di Adua sara' ricordata nel migliore dei modi.
Con le armi, saranno commemorati i nostri eroi caduti in armi, con la vittoria piu' bella sara' glorificato il sacrificio dei nostri fratelli, caduti per un'Italia grande, tanto piu' grande, quando la Patria era una semplice e piccola espressione geografica.
La battaglia e la vittoria esigeranno ancora dei sacrifici. Ma le Camicie nere della "23 Marzo", come tutti i loro camerati dell'Esercito e della Milizia, sono pronti alle prove piu' difficili, ai cimenti piu' ardui.
Ras Cassa e Ras Sejum, con i resti delle loro potenti armate, avranno domani la prova della nostra potenza e della nostra volonta'.
La vittoria, la piu' bella, forse la decisiva, coronera' i nostri sforzi.
Cosi' vuole il Duce, cosi' ha detto il "nostro" Principe, cosi' dicono, ad una sola voce, i diecimila legionari della prima divisione, insieme ai soldati e ai militi, che in A.O. lottano per la Patria lontana: Vittoria!
L'amba in fiamme
Un immenso anfiteatro, a ciclopici scaloni alti varie diecine di metri, uno sbarramento di roccie invalicabili agli uomini ed ai quadrupedi, una posizione militarmente poderosa e inattaccabile: ecco l'Amba, ove per quattro giorni le legioni hanno sostato in attesa che la mina e il piccone intaccassero la roccia e aprissero un varco per il passaggio della divisione.
Per quattro giorni e quattro notti si e' atteso che il miracolo del genio e della volonta' si compisse. Per ore e ore, sotto il sole cocente e con la vigile guardia delle mitragliatrici, che seguendo passo passo il lento avanzare degli uomini rendevano sicuro il regolare procedere dei lavori, centinaia e centinaia di Camicie nere hanno attaccato la montagna, strappati a questa enormi massi di pietra e pochi pugni di terra e a perto infine una mulattiera abbastanza ampia, discretamente pianeggiante e comunque sufficiente per il passaggio delle truppe e delle colonne di salmerie.
Mentre giu' per le verticali pendici si lavorava per rendere meno impervio quel terreno, che conquistato senza spargimento di sangue esigeva pero' il suo tributo di sudori e di fatiche, sull'alto dell'Amba si vegliava e si attendeva.
Gli sguardi erano tutti rivolti verso la valle e particolarmente si fermavano a fissare con insistenza un ammasso di verde, che lontano attestava la presenza di acqua. Di quelle acque del Gheva' che per tanti giorni abbiamo desiderato raggiungere. E cio' per piu' ragioni. Perche' oltre al refrigerio che esse ci avrebbero donato, la', oltre quel verde, si aggirava il nemico e la' si sarebbe combattuto e vinto.
Sete di acque e sete di eroismo spingevano i militi a desiare l'istante della partenza e il termine di quel riposo forzato quanto indesiderato.
Improvvisamente, come per interrompere la snervante monotonia dell'attesa, l'Amba si e' infiammata - infiammata nel senso letterale della parola.
Da valle, portate su rapidamente dal vento impetuoso, le fiamme sono salite al pianoro che sovrasta il massiccio roccioso e alimentate dalle alte erbe secche, si sono sparse ovunque giungendo fin nei pressi degli accampamenti.
Acceso, da chi non sapremmo dirlo, (forse dagli abissini scorrazzanti piu' qua e fin la' nella valle) il fuoco ci ha sorpresi in unn tardo pomeriggio, mentre si attendeva il ritorno della corve', partita al mattino per il rifornimento d'acqua lontano una ventina di chilometri da noi e quindi maggiormente preziosa. Ci hanno sorpresi le fiamme, ma non impressionato. Di scatto gli uomini sono balzati in piedi ed hanno affrontato il fuoco con lo stesso coraggio e la stessa forza con i quali sono usi affrontare i nemici.
Lo spettacolo del'amba ardente era terribilmente superbo. Un quadro da inferno dantesco, ma immenso, grande, come grande era il pianoro ove il braciere ardeva. La bellezza dello spettacolo nuovo per tutti non ha pero' potuto essere ammirato a lungo. Urgeva porre termine allo spettacolo e cio' e' stato fatto nel piu' breve tempo possibile. Coperte da campo, mantelline e tutti gli indumenti personali sono stati usati per interrompere la marcia del fuoco, circoscriverlo e poi soffocarlo definitivamente.
Per un'ora si e' combattuta una accanita battaglia contro lo strano e potente nemico e dopo un'ora tutto era finito. Una distesa di ceneri calde e di tizzoni ardenti formavano il campo della insolita battaglia. E qua e la', vittime innocenti, alcune tende del tutto o quasi distrutte mostravano lo scheletro dei loro paletti, caduti a terra al primo sopraggiungere delle fiamme.
Poche, in verita', le tende distrutte, perche' i militi - dopo aver posto al sicuro armi e munizioni - si sono dati da fare per portare i teli, le modeste pareti di tela cerata, che con il moschetto e la borraccia sono il piu' prezioso e geloso tesoro del soldato.
Cosi', olte a farci vivere un'ora movimentata e un tantino particolare, le fiamme non hanno avuto altro effetto all'infuori die quello di farci vuotare le borraccie e terminare in quattro e quattr'otto la riserva d'acqua, che giunta a notte avrebbe dovuto servirci almeno per ventiquattro ore.
Verso il Gheva'
Il sole e' gia' alto quando imbocchiamo la mulattiera, quel prodigio di mulattiera aperta in pochi giorni dai nostri camerati della 135.a legione. Il sentiero, che dai 2300 di quota porta sotto ai 1500, si snoda per chilometri e chilometri tra le roccie e la poca misera vegetazione dell'Amba.
Lentamente si discende, e ad ogni passo il calore si fa maggiormente sentire. Di tanto in tanto branchi di scimmie ci vengono incontro e lanciano le loro grida gutturali a mo' di saluto. Qualcuna - forse partigiana del Negus - non si contenta delle grida e lancia contro la colonna in marcia delle grosse pietre. Ma basta un colpo di moschetto per mettere in fuga tutta una schiera di questi strani ed imprevisti nemici.
A mezzogiorno, poco prima o poco dopo, raggiungiamo il fondo valle. Il calore e' ormai del tutto africano. Si procede su di un terreno di sabbia rossastra, che rende pesante e faticosa l'andatura. Il passaggio di migliaia di uomini e centinaia di quadrupedi solleva un polverone che inaridisce le labbra, le narici e penetra negli occhi. Ricorriamo alla protezione degli occhiali, e agli effetti visivi, annulliamo il disagio del polverone. Ma nulla possiamo fare per placare l'arsura. Le borraccie sono vuote e acqua non se ne trova. Comunque, la marcia procede regolarmente. A passo accelerato le colonne vanno avanti verso il verde lontano, ma sempre piu' distinto.
Non si canta. E' una delle poche volte che la divisione marcia in silenzio. Solo qualche frase scambiata di sfuggita, qualche motto di spirito detto a fior di labbra e il nitrire dei muli e il muggire dei cammelli rompono il silenzio che incombe sulle truppe.
Finalmente un po' di vegetazione! Poi di piu' e infine una festa di verde. Abbiamo raggiunto la immensa piantagione di cotone che cresce rigogliosa ai margini del Gheva'. Le piante del prezioso vegetale crescono floride e superbe tra le sabie. alte a meta' di uomo, con le loro foglie ed i frutti simili a quelli dei nostri noccioli, coprono il terreno e rendono piu' agevole la marcia.
Ora che il fiume e' vicino, non si cammina piu', si corre. Stanchezza, sete, arsione sembrano scomparse, tanta e' la foga con la quale le Camicie nere percorrono le ultime centinaia di metri.
Ed eccoci al Gheva'. Il fiume amico - che gia' conoscemmo...ed apprezzammo durante le marcie da Hausien a Macalle' - ci saluta con l'allegro mormorio delle sue limpide e fresche acque. Con gioia accettiamo il saluto e lo contraccambiamo con un bacio ardente e appassionato.
Le bocche si posano sul liquido, a placare la sete. E dopo le bocche, la faccie, le braccia, le gambe. Dissetati, rinfrescati e con le borraccie colme, guadiamo il fiume e saliamo una piccola altura. Siamo a destinazione. Abbiamo raggiunto la localita' prescelta per la sosta notturna.
Lestamente come non mai, piantiamo le tende, si improvvisano i trinceramenti, si mettono in postazione le mitraglie ed i cannoni, si ammucchiano i materiali e poi, via, di corsa al fiume.
A gruppi, a plotoni, tutti prendiamo il bagno. Tutti assaporiamo la gioia che solo l'acqua, e solo in queste circostanze, sa dare agli uomini.
Allegramente, si sguazza, si nuota, e ci si ubriaca di freschezza, di gioia.
Dopo tanti giorni, abbiamo acqua a volonta'. E l'avremo ancora domani e dopodomani, giacche' il corso del fiume ci accompagnera' per un bel po'. E quando lasceremo il Gheva', saranno i suoi affluenti che ci porteranno la gioia del liquido divino.
Dopo il bagno, a scaglioni, come e' partita, la truppa ritorna al campo, alle trincee, alle tende. Ora si canta, a piena voce, a squarciagola. Si caqnta la čpiu' bella canzone alle acque di quel fiume, che come una bella donna, sa farsi tanto desiderare prima di concedersi ed inebriare l'uomo che per essa arde e soffre.
Veglia al chiaro di luna
Consumata la razione di viveri a secco (la galletta e' tanto buona, cosi' bagnata e resa soffice dall'acqua) ci sdraiamo sotto le nostre casette di tela.
La notte e' scesa. Una bella fetta di luna brilla nel cielo e illumina le cose e gli uomini. La serata e' calma. Il vento si e' calmato ed un leggero calore si fa sentire ancora. A dorso nudo sulla sabbia calda, riposiamo e vegliamo.
Come in una serata di agosto, ci godiamo la quiete della notte. I teli anteriori delle tende sono alzati e ci permettono di guardare lontano davanti a noi. Si conversa allegramente, si ride e si canta.
Qualcuno, intorno ad un fornellino improvvisato, prepara una gavetta di te'. La bevanda sara' sorbita amara perche' lo zucchero e' da piu' giorni un ricordo tanto lontano. Ma, amara o dolce, la bevanda esotica e' sempre ben gradita e utile, almeno qua dove non abbiamo e non possiamo avere il sublime conforto dei nostri vini toscani. Utile questo te', non fosse altro per le sue foglioline, che dopo bollite faremo asciugare alla viva fiamma, rinvolgeremo in un qualsiasi foglio di carta e fumeremo come la piu' fine delle sigarette.
All'orizzonte, lontano almeno sei o sette chilometri, brillano dei grandi fuochi. E' il nemico, che come noi veglia. E non esita a rivelarsi ai nostri sguardi, perche' sa che le piccole artiglierie da montagna non hanno un tipo troppo prolungato. Ma domani mattina andremo avanti. E giungeremo a tiro. Stasera non possiamo dare la buona notte agli abissini, ma domani daremo loro il buon giorno.
Dino Corsi