Il Telegrafo del 13 dicembre 1936
"Faccetta nera" ad occhio nudo
Gobbia (Regione Uollo), dicembre
"Faccetta nera"...prima la canzone che furoreggia, poi i romanzi, le novelle, le caramelle dissetantie chi più ne ha più ne metta. Un delirio, un fenomeno di ubriacatura generale: Faccetta nera di qui, africanella di là, schiava abissina di sopra, bella moretta di sotto...Per qualche mese - lo immaginiamo, poichè eravamo ancora, e lo siamo tuttora, tanto lontani dall'Italia - gli italiani si son dati alla pazza esaltazione della donna etiopica, cedendo, forse, al misterioso fascino che emana tutto ciò che sa di orientale e di esotico.
Oggi, fortunatamente, la verità sul gentil sesso ha cominciato a farsi strada anche in Patria; non si canta più "Faccetta nera" e si comprende quanto le donne abissine siano lontane da noi. Una lontananza addirittura insuperabile per gli italiani, specialmente per quelli che in A.O.I. possono "ad occhio nudo" vedere, apprezzare, e considerare.
E giacchè, passata ormai l'ondata di molto discutibile esotismo, non si corre il rischio di compromettere il successo di una canzone, o di sminuire il valore di tante frasi o quelle di tanti prodotti che di "faccetta nera" fecero la loro elastica pedana per il salto verso la notorietà, possiamo parlare liberamente di queste donne, più o meno nere, più o meno selvagge e, dirlo e necessarie, tutte ugualmente...poco igieniche.
E, senza immodestia, possiamo parlarne con una certa competenza. Competenza acquistata in sedici mesi di vita africana, durante i quali sono passate sotto i nostri occhi donne di ogni razza e regione: dalla dancale alle tigrine, dalle galla alle amarcihe e dalle iollo alle scioane. Quelle cioè dal volto e dal corpo coperti dei più inverosimili tatuaggi, quelle dal naso e dalle labbra deformate e straziate da pesanti anelli, infilati nella viva carne a mo' di nasiera o di "filetto", a quelle infine - la maggiornaza - avvolte negli "sciamma" che furono candidi un giorno e che oggi hanno un colore indefinibile, ma certo più nero che bianco.
Non si può disconoscere tuttavia che la Natura, sempre giusta, ha dotato queste donne di corpi perfetti e talvolta addirittura statuari. E, specialmente le tigrine e le amariche, hanno lineamenti regolari e belli, in perfetta armonia col restante delle quasi sempre bellissime persone. Ma questi pregi, ve ne sono pochi, scompariscono e vengono annullati dalla totale mancanza di femminilità e di ogni senso di pudore.
La donna etiopica non è femmina. Queso paradosso è reso possibile dalle consuetudini etiopiche che fanno della donna un essere inferiore, un completamento necessario ma non apprezzato, alla vita dell'uomo.
L'amore, così come lo intendiamo noi latini (e per intenderci, aggiungiamo, noi latini non romantici) è sconosciuto in Etiopia. L'amor, qua, è materialità, solo materialità e nient'altro. Il matrimonio è un affare ove il cuore non conta per nulla. Talvolta, ma ben raramente, i sensi possono influire sull'accoppiamento di due giovani, ma di consueto sono il numero delle pecore, la razza degli "zebù", e la qualità delle grezze pezze di lino che la donna porta in dote, decidono l'uomo alla scelta della moglie.La contrattazione - vero e proprio mercato - si svolge generalmente tra i genitori dei giovani destinati ad unirsi. Raramente lo spposo . sempre o quasi ancora ragazzo - può intromettersi nella faccenda che riguarda lui più di ogni altro; e mai è conceso alla sposa di interloquire in merito al suo futuro destino.
E così la donna, appena uscita dall'adoloscenza, è data ad un uomo che diviene per essa il padrone. Costretta, sin dai primi giorni di matrimonio, ai lavori più umili e faticosi, abituata a considerare il marito, e quindi il maschio in genere, un essere superiore, la fanciulla abissina diviene un essere socuro e umile, privo di volontà e di energia.
Tra le pareti della sordida e lurida capanna, sfiorisce la sua giovinezza. Costretta a portare a spalle pesanti fardelli, a lavorare la terra e star china ore e ore per la faticosa confezionatura della "borgutta", la giovane etiopica perde la purezza delle linee e, con il rapido volgere di pochi anni, il suo corpo di Venere fanciulla diviene quello di un essere storpio e anchilosato.
Non conosce l'amore, non sa dell'esistenza di questo sentimento, e quindi, ignara com'è, si trascura e si abbandona sino ad imbestialirsi. Lo "sciamma", niveo il giorno del matrimonio, non conoscerà mai acqua e sapone. E la donna lo indosserà, con gli altri indumenti, sino a quando i luridi stracci, cadenti a brandelli, non scopriranno almeno quattro quinti della sua persona. E così seminuda si mostrerà agli uomini; al suo ed agli altri.Il pudore, come l'amore, è ignoto ad essa.
Soltanto la maternità sembra riscegliare nella donna abissina il sopito istinto femminile. Ma ciò dura poco. Quando il marmocchio fa i suoi primi passi, la madre, fino ad allora amorevole, affettuosa ed attaccata al figlio quasi selvaggiamente, lo abbandona a sè stesso. Così, proprio così come fanno le bastie.
Questa la donna, la sposa, la madre. Vi è poi - comu ovunque nel mondo - la fanciulla che cresce e diviene donna senza essere sposa o madre. Poche in verità, ma zitelle ve ne sono anche in Africa. E queste, forse, furono le ispiratrici del poeta di "Faccetta nera".
La ragazza che non si sposa o che si sposa in età avanzata (l'età normale per il matrimonio oscilla tra i 13 ed i 15 anni) sfugge un pò alla legge comune e, fattasi donna, può anche sembrare diversa dalle altre. Una certa ricercatezza nell'abbigliamento, la tendenza a curare la persona, l'adornarsi con ninnoli e gioielli e centro altre piccole sfumature sembrano a prima vista esser segni di femminilità. Ma non lo sono. Basta avvicinarla, la donna, per convincersene. Essa, a contatto con l'uomo, perde ogni suo fascino esteriore e rivela in pieno la propria materialità e la mancanza di ogni sentimento non che bestiale.
Mai le labbra della "selaitì" si schiuderanno per una parola d'amore e mai i suoi occhi brilleranno di gioia vera. Nata e cresciuta in una tana da belve, vissuta nella più ripugnante promiscuità, l'abissina, anche la più esigente, la più raffinata, rimane quella che è: un essere dal cuore di pietra e dalla mente ottusa.
Le eccezioni sono rare. Ed è necessario varcare la soglia del "ghebì" dei capi o dei palazzetti principeschi per trovarne. Nelle classi nobili la donna, per il fatto della superiorità di razza e di origine, vive diversamente dalle "selitì". La "nizerò", la signora, ha servi e serve (e fino a ieri aveva schiavi e schiave), è, generalmente, istruita, conosce un pò gli usi europei, vive la vita della donna e sa, volondolo, essere femmina.
Ma anch'essa, anche la figlia del principe, non sfugge al destino comune. Il matrimonio le è imposto dai genitori, i quali, anzichè di pecore e di "zebù", contratteranno magari di greggi e di armenti, ma sempre faranno mercato della figlia da marito. E questa, conscia del proprio destino, chinerà la testa davanti all'autorità paterna e soffocherà l'istinto del cuore.
Il quadro sino a qui prospettato farà forse pensare ad un eccesso di pessimismo da parte di chi scrive. Ma non è così. Non è così e non è tutto qui. Ancora si può scrivere su "Faccetta nera" ed ancor si può dimostrare quanto e come le donne etiopiche siano lontane dalla nostra mentalità di italiani.
Sorvolando sulla descrizione degli ambienti dove le indigene vivono in promiscuità con gli uomini, tralasciando molte usanze e credenze femminili, che il giornale non può riportare, vogliamo solo accennare all'abbigliamento di quelle che avremmo dovuto portare a "Roma liberata" per farla poi sfilare davanti al Duce e al Re.
lo "sciamma", l'abbiamo già detto, candido un giorno, non lo sarà mai più. E come lo "sciamma" gli altri poveri e miseri stracci che rivestono le Veneri nere. Il sapone, sconosciuto prima del nostro arrivo, è oggi usato a malapena dal cinque per cento degli indigeni. E l'acqua, abbondante in tutto l'altipiano, è lavista dai nativi, i quali, sino a poco fa, anzichè darsi la briga di scavare i pozzi, raccoglievano per dissetarsi quella stagnante e marcia dei fossi e delle paludi. Figuriamoci così se potevano preoccuparsi della pulizia!
Detto ciò - il lettore avrà già compreso quali campioni di igiene siano le donne - sarebbe inutile aggiungere altro, ma questa benedetta "Faccetta nera", oltre a quello di non lavarsi o di lavarsi poco, ha un'altra bella abitudine, che sarebbe delitto no rendere noto.
La "sabaitì" dai capelli riccioluti e ribelli, si acconcia la chioma in tante piccole treccie e tiene unite le treccie con il continuo spalmare la testa di burro rancido.
Il calore discioglie il burro, che liberamente scorre giù per la faccia ed il volto. E, trattandosi di burro fermentato, oltre all'untuosità cosparge la donna di odor rancido, che unito a quello che emanano le vesti ed il corpo tutto, costringe il nazionale a serrare le narici al solo avvicinarsi di una "faccetta nera".
Con il trascorrere del tempo ci si abitua, è vero, o meglio ci siamo abituati all'odor di rancido come alle vesti da immondizzaio; ma l'abitudine è forzato adattamento, è sopportazione, è rinuncia...
E dopo sedici mesi, africanizzati anche noi ormai, si arrischia la confidenza lecita, si rivolge un complimento, si allunga la mano per una carezza...e si corre poi al più vicino torrente per lavarsi quella mano impregrnata d'odor rancido. E correndo alla purezza delle acque, si canticchia:
Non vo' sentir cantar Faccetta nera,
non voglio più toccare un'abissina,
mandate dall'Italia una bambina,
che voglio stringer forte sul mio cuor
Dino Corsi