Il Telegrafo del 28 agosto 1942
"---fanciulli abbandonati, figli del popolo, cioè di nessuno" disse Glìena

Fronte Russo, agosto
A K. si giunse di notte, dopo aver viaggiato per alcune ore lungo una pista fatta di buche coperte di detriti ed interrotta di tanto in tanto da acquitrini e fossati privi di ogni sia pur primordiale ponte o passerella.
Viaggiare nell'oscurità in simili condizioni di viabilità non è proprio la cosa più piacevole di questo mondo, ma per soldati rotti ad ogni sorta di disagio e fatiche quali sono i combattenti italiani in Russia, certi trasferimenti in autocarro rappresentano sempre una cosa piacevole e quanto mai gradita.
Si dica ciò che si vuole, ma l'automezzo, sia pure il non troppo molleggiato camion da trasporto da sempre al soldato la sensazione della comodità e fa sì che la truppa sopporti senza nessun segno di disagio gli inconventienti cagionati dalle asperità del terreno e del pessimo manto stradale; scossoni, traballamenti ed impolveratura da non dirsi.
Specialmente poi quando certi viaggi significano avanzare su terreno avversario, quando ad ogni girare di ruota sono metri di suolo strappato al nemico, quando a termine della più o meno veloce corsa c'è la probabilità del combattimento e comunque la certezza della conquista di nuove località, specialmente in questo caso il viaggio in autocarro diviene qualcosa di tanto deliziosamente grande che entusiasma e fa fremere di contento.
Dicevamo, dunque, che a K. giungemmo di notte. Senza inciampi, chè i russi avevano già abbandonata la zona sotto l'incalzare dell'avanzata dei nostri reparti, penetrammo nell'abitato e predisposte le necessarie misure di sicurezza, allestimmo il campo. Intanto i cucinieri, malgrado l'ora tarda, si disposero a confezionare il rancio caldo.
Mentre le pattuglie e le vedette si irradiavano all'intorno alla improvvisata base e, tra il sommesso sussurrio dei legionari ed il picchiettare degli attrezzi leggeri si erigevano le casette di tela, la squadra degli addetti alla cucina - gente insonne ed instancabile che fa ardere il fuoco dei fornelli anche quando altro fuoco divampa - scelto un desio al coperto dall'eventuale osservazione ed offesa nemica, confezionava la saporosa pastasciutta, la pietanza più nostra, che tanto bene fa ai corpi ed agli spiriti dei soldati.
Nell'attesa che la voce del sergente di giornata risuonasse nelle tenebre a gridare "l'adunata rancio", fummo portati da naturale curiosità ad esaminare gli immediati dintorni del campo e portammo i nostri passi a poche diecine di metri dal boschetto di rovere in mezzo a cui erano state erette le tende.
Senza oltrepassare la linea delle vedette avanzate, procedendo in mezzo ad erbe alte fino al ginocchio, giungemmo in un semispiazzato delineato da basse costruzioni il di cui biancore delle pareti spiccava nell'oscurità.
Ci parve per alcuni istanti di essere nel recinto di qualche esposizione e ad accrescere questa impressione contribuiva in modo particolare un gigantesco padiglione circolare terminante alla sommità, in una specie di torretta. ualcosa come un baraccone di giochi da fiera.
Sapemmo al mattino che si trattava di scuderie e la costruzione circolare altro non era che la "cavallerizza", il maneggio coperto di un reggimento di cosacchi.
K., ai tempi dell'ultimo Zar, fu celebre appunto per queste scuderie imperiali, ove si allenavano e si addestravano cavalli di razza per conto del Sovrano e dei Principi Reali. La bufera bolscevica disperse il ricco patrimonio equino. Successivamente gli spaziosi ambienti ospitarono coasschi del Don e soltanto negli ultimi anni, pur mantenendo l'impianto il suo carattere militare, era qui ripreso l'allevamento di destrieri di razza.
La nostra avanzata, costringendo a precipitosa fuga gli squadroni dei terribili sciabolatori delle steppe, non potè evitare che la quasi totalità dei campioni dell'allevamento seguisse i russi nella ritirata o si perdesse nella immensità delle pianure che stanno tra il Donez e il Don.
Alcuni esemplari col trascorrere dei giorni hanno fatto ritorno alle scuderie da cui erano fuggiti o cacciati. Si sono visti stalloni e puledri avvicinarsi ai vecchi padiglioni quasi con timore. Stanotte per il continuo divagare senza meta, affamate e forse spinte dal richiamo del sicuro asilo, le povere bestie sono tornate ai loro posti nelle deserte scuderie. Come dei profughi che tornano al villaggio dopo il cessar della battaglia.
I legionari li hanno curati, governati e si sono subito catturati la simpatia degli intelligenti animali, che nei nuovi padroni non han forse trovato da rimpiangere i vecchi.
Come tutto ciò che porta l'importanta della falce e del martello, anche queste costruzioni, capaci di ospitare qualche migliaio di cavalli, non eccellono per pulizia e per comodità.
Anche qui, come ovunque, si è curato il lato esteriore delle cose. E così, al biancore, calcareo delle pareti esterne, che da una impressione di ordinata organizzazione, si oppone la sporcizia dell'interno. Ai fregi a grande effetto che decorano taluni particolari ambienti e fan credere almeno pensare ad una razionale opera di rinnovazione, si contrappone il fatto che nessuna variante è stata portata a quella che era l'arredamento delle vecchie scuderie zariste. Anche questi immensi padiglioni, che - si dice - costituivano un vanto per il regime moscovita son qui a dimostrare la nessuna capacità costruttiva ed organizzativa di questo regime che sembra aver profuse tutte le sue forze materiali e morali soltanto nella macchinazione dell'attentato alla civiltà europea.
Ma noi, veramente per intentedamo proprio parlare delle scuderie di K...., bensì del vecchio Antòn, il guardiano di queste, e per esser più precisi delle di lui figlie: Nadèzda e Glièna.
Anton è sulla sessantina. Alto, curvo di spalle, fronte bassa e due occhietti porcini che brillano tra le ciglia grigie, ha in sè qualcosa di particolare che lo rende simpatico a prima vista.
Durante la Grande Guerra fu in Galizia con uno squadrone di cosacchi, si distinse in varie occasioni, si beccò una fucilata nel petto, che per poco non lo spedì in Cielo e fu in seguito alla ferita dichiarato inabile alle fatiche del fronte.
Per il premio si ebbe il posto di custode delle scuderie dello Zar. La Rivoluzione e l'avvento del Comunismo, del quale fu e forse è un tiepido ma fedele seguace, lo conservarono alla sorveglianza degli immensi padiglioni di stallaggio.
Parla discretamente l'italiano, che apprese nel '18 dai prigionieri austriaci delle nostre terre allora irredente, non lo ha dimenticato, anzi lo ha coltivato come chi sa di possedere un tesoro e vuole conservarlo ad ogni costo.
E le di lui figlie hanno appreso, come il padre, la lingua di Dante dai poveri fratelli trentini e triestini che conobbero quando erano ancora bambine.
Nadèzda ha trentacinque anni. Bella donna che, almeno fisicamente, ha fatto onore al suo nome, o meglio al sentimento che ispirò i suoi genitori nell'imporvelo. Perchè Nadèzda vuol dire Speranza.
Glìena è di un paio d'anni più giovane. Insignificante come figura, è straordinariamente intelligente e si esprime nel nostro idioma quasi perfettamente.
Nadèzda è sposata. Cioè, non lo è precisamente. Lo fu fino ad un anno fa. Sposò, col rito bolscevico, un suo compagno di lavoro (fino ad un mese fa le due sorelle lavoravano in una grande fabbrica di armi di V...) e dopo tre anni di vita in comune, più o meno felicemente trascorsa, si separò dal marito, tornando allo stato di nubile. Cosa questa consuetudinaria in regime staliniano.
Dal...diciamo pure matrimonio, nacque un bimbo: Glief. Gli fu dato questo nome perchè il marmocchio... Ma lasciamo parlare Glìena. E' lei che ci racconta la storia. Triste, dolorosa storia.
Stiamo seduti intorno ad un tavolo nella cucina del vecchio Antòn. Nadèzda sta preparando il tè, che prenderemo con latte fresco e senza zucchero; il custode delle scuderie assapora con beatitudine un mezzo toscano da noi offertogli e sonnecchia semisdraiato ad una vetusta poltrona, avanzo di che sa qual patrizia villa dei dintorni; Glìena è in piedi, appoggiata ad uno scaffale a vetri. Ha lo sguardo fisso in avanti. I suoi occhi sono volti ad una annerita immagine della Vergine incorniciata da listelli di noce che pende dalla parete.
Questo quadretto sacro è lì da decenni. E fino a pochi giorni fa ebbe la non invidiabile compagnia di illustrazioni propagandistiche a carattere non certamente religioso. "E' un ricordo della mamma", ci disse Nadèma, "lo teniamo perchè ce la ricorda". Noi, senza dirlo, pensammo che doveva certamente essere la più buona delle mamme quella che lasciò nell'Inferno terrestre un tanto prezioso e gentile ricordo. Riguardando la sacra immagine, ci parve vederla, questa modesta contadina russa, nel sembiante della Madre di Gesù a proteggere - colla sua presenza - le figlie dimenticate da Dio.
Volevamo esprimere in una forma comprensibile i nostri pensieri ma, Glìena parlava colla sua voce rude un pò ingenitilita dalla pronunzia dell'italiano, il racconto ci interessava e quindi rimandammo ad altra occasione l'argomento non facile a trattarsi.
La donna parlava del nipotino, del piccolo Glief.
"Gli fu dato questo nome - Leone è il russo Glief - perchè forte e svelto come il re della foresta. Quando mia sorella lasciò il marito, Glief aveva un anno. Io e Nadèzda lavoravamo, come sapete, a V. La vita, particolarmente dopo l'inizio della guerra, era dura. Lavoravamo dodici ore al giorno. Bisognava lavorare per vincere. Così diceva il Commissario di fabbrica.
"Non potevamo curare il piccino. De resto son poche le operaie che lo possono e lo potevano. Glief come tanti e tanti figli di lavoratori, fu tolto alla madre, a me che gli volevo tanto bene; la nostra creatura fu ricoverata in uno dei grandi edifici per l'infanzia del popolo. In Russia si costuma così. Anche i figli sono del popolo."
Nemmeno un'impronta di amarezza in quest'ultima frase, quasi un senso di malcontenuto rancore.
Glìena riprese: "Nadèzda pinageva. Io soffrivo la mancanza la Glief alla quale mi ero affezionata, ma mi sforzavo di dimostrarmi tranquilla per far coraggio a mio sorella. Bisognava essere forti. Al piccolo avrebbe provveduto lo Stato, noi dovevamo lavorare da brave compagne per contribuire alla vittoria.
"Quando un mese fa la guerra si avvicinò a V..., quando gli aerei cominciarono a far la loro comparsa sulle fabbriche spargendo distruzione e morte, i bambini dell'infanzia del popolo furono fatti partire. Di notte, in autocarro, tante e tante creature presero la via dell'interno. Quale via? Non sappiamo.
"Nadèzda non fu neppure avvertita e seppe della partenza di Glief soltanto due giorni dopo, quando, recatasi a visitare il figlio, trovò le porte dell'asilo chiuse.
"Pianse. Io no, non piansi. Perchè so soffrire senza dimostrarlo. Piange ancora mia sorella. Ed io soffro tanto particolarmente quando vedo per istrada uno dei tanti fanciulli abbandonati; figli del popolo, cioè di nessuno..."
Un singhiozzo non represso interruppe la narrazione. Nadèzd, la madre, piangeva. Dai suoi occhi color del cielo le lacrime scendevano copiose e cadevano sul tavolo, tra le tazze già pronte per il tè.
Il vecchio Antòn, giunto a termine del "toscano" si scosse dal torpore e mormorò: "Figlia Nadèzd, vuoi offrire lacrime all'ospite?".
Non erano per noi quelle lacrime. Ma le avemmo volentieri accettate come la più bella delle offerte, la più preziosa. Perchè il dolore di quella mamma russa era di grande significato e voleva dire che il ricordo dell'altra mamma, la più vecchietta, non invano era rimasto per decenni in quella casa. Le lacrime di Nadèzda stavano a dire che nella casa del cosacco, ove una immagine sacra aveva vegliato malgrado la bufera negatrice, il Comunismo non aveva attecchito in pieno perchè vinto dal materno dolore.
Sono passati alcuni giorni ormai. K..., le scuderie, il vecchio custode, Nadèzda, Glìena e Glief non sono più che un lontano ricordo. In questa guerra le immagini si sovrappongono alle immagini, tempo per riflettere e ricordare ve ne è poco, la vita corre veloce.
E veloci, sulle vie della conquista, corrono le macchine della nostra colonna, lasciando dietro di noi paesi, persone, gioie e dolori. Ma quando lungo le stade polverose della nostra avanzata incrociamo qualcuno di quei piccoli esserini che stendono verso gli "italianschi" - e mai invano - le manine imploranti un pò di pane, quando un nodo ci serra la gola e tutto il sangue ribolle di sdegno alla visione di tanti innocenti creature strappate alle madri e buttare al destino, allora riudiamo il pianto di Speranza e facciamo voti perchè il piccolo Leone ritrovi la mamma e possa tornare nella casetta dove veglia il ricordo della nonna, che forse farà il miracolo.

Dino Corsi