Il Telegrafo del 10 settembre 1942
Quando il buondì si vede dal mattino (I parte)
Fronte Russo, settembre
Sbattono ancora i cucchiai entro le gavette alla ricerca dell'ultimo cannellone di pasta, nel campo è il caratteristico andirivieni che sempre segue la consumazione del rancio serale. Gli uomini, giunti a termine della giornata più o meno intensamente vissuta, si preparano chi al riposo, chi a dedicare un'ora ai suoi cari attraverso la corrispondenza, chi ad effettuare una sia pur sommaria pulizia ai capi di vestiario e chi, infine, a vegliare sulla tranquillità dell'accampamento e sulla sicurezza dei camerati.
Le vedette e le pattuglie raggiungono i posti di guardia. Uomini che in un modo o nell'altro han lavorato dall'alba al tramonto si accingono a trascorrere in bianco la notte, moschetti serrati tra le ferree dita, bombe nelle capaci tasche, elmetto sugli occhi sempre fissi nella vigilanza, nervi tesi e pronti alla scatto.
Il fronte è tranquillo da varii giorni. Appena, appena qualche rara sparatoria notturna e qualche ancor più raro scontro di pattuglia ricordano che al di là del fiume ci sono i russi. La tranquillità che aleggia sulle due sponde del Don può essere foriera di burrasca, ma momentaneamente è la calma scocciante che impera; è questa attesa di ciò che potrà avvenire, come e quando nessun sa, a mettere a dura prova i nervi dei legionari.
Se qualcuno proponesse di guadare a piedi il Don -in alcuni punti facilmente attraversabile, perchè poverissimo di acque - per recarci a far visita ed a disturbare il sonno dei bolscevichi, tutti gli uomini sarebbero contenti rinunciare al riposo e romperla colla scocciatura, necessaria quanto si vuole ma sempre sgradita, dei "reparti in posizione d'attesa".
Ecco perchè al giungere improvviso di un porta-ordini motociclista, seguito da segni di movimento precursore di novità, al Comando Battaglione, le Camicie Nere, anche quelle che si erano già stese al suolo avvolte nelle coperte da campo, scattano, si fanno intorno, alle sedi del Comando Compagnia in cerca di informazioni. Il campo si anima, si incrociano le previsioni più disparate, taluni provano e riprovano e riprovano la scorrevolezza dell'otturatore, altri verificano la sicurezza delle bombe a mano.
Senza che nulla sia trapelato, senza che nessuno abbia parlato - il porta-ordini potrebbe anche essere latore di normali comunicazioni di servizio - si spande per l'aria odor di polvere. Ed in tutti è la certezza che se novità vi sono, saranno buone, cioè probabilità di menar le mani. E così è infatti.
Sono trascorsi appena pochi minuti e gli ordini giungono precisi ai reparti. E' segnalato un nucleo di partigiani in località distante una trentina di chilometri. Occore eseguire subito la bonifica della zona. Centoventi uomini partiranno tra un quarto d'ora, gli altri rimarranno sul posto.
I centoventi uomini son trovati all'istante tra le centinaia che vorrebbero partire. I prescelti esultano e preparano la borsa tattica - bombe, munizioni e viveri di riserva -; gli esclusi mormorano e maledicono il destino. Qualcuno impreca contro "la solita camorra, i favoritismi ed i privilegiati". Perchè il dover rimaner al campo, anche se il campo stesso sorge in primissima linea, è considerata un'offesa personale quando altri si muovono per far "qualcosa di buono".
Il console assume personalmente il comando del reparto di formazione. Si parte che è quasi notte. E, naturalmente, si parte cantando.
Il canto è per i legionari un alimento di prima necessità. Marciando, lavorando, combattendo, sempre in tutte le manifestazioni della sua esistenza guerriera il soldato italiano si abbandona al sonoro godimento e trae da questo spinta per il corpo e fuoco per lo spirito.
Sulla pista polverosa si eleva un coro alpino. Sono i nostri camerati trentini che hanno intonata una suggestiva canzone delle loro vallate. Il tono lento delle note marca il passo alla truppa: passo da montanari, lungo e calmo, sulle steppe russe. Il comandante, come suo solito, marcia in testa alla formazione ed unisce la sua voce al coro dei legionari.
Per un'ora circa si avanti senza incontrare un segno di vita. Solo la steppa colle sue erbe ed i suoi rari cespugli si para davanti ai nostri sguardi. ad X.... incrociamo una sezione sussistenza.
I bianchi tendoni, alla sommità dei quali fan capolino i cilindrici tubi dei forni da campo, danno vita al paesaggio e ne rompono l'assillante monotonia. I camerati panettieri sbucano un pò dappertutto e ci vengono incontro agitando le braccia nude ed infarinate fino al gomito.
questi bravi ragazzi che combattono la loro battaglia nelle immediate retrovie del fronte, questi oscuri eroi di cui mai nessuno parla e che pertanto sono in linea, sempre, notte e dì, questi soldati della sussitenza, molto spesso chiamati ad impugnare il moschetto tra le mani ancora impastate di acqua e farina, godono le generali simpatie dell'Armata, anche se talvolta il pane da essi confezionato, con mezzi sovente di fortuna, non esce dal forno perfetto come sempre si vorrebbe.
Tra soldati e legionari si scambiano saluti, auguri, e naturalmente, ne salta fuori anche la solita cordiale sfottitura.
- Che andate a caccia di grilli? - domanda un ragazzino ventenne, sorgendo fuori da un cumulo di sacchi vuoti e tutto infarinato come un mugnaio, ad un barbuto milite che potrebbe essere suo padre.
- No, risponde la camicia nera, vado a cercarti la balia. Ed aggiunge: Tu "boccia" resta a casa e procura di cuocer bene il pane, che ci fate sempre mangiare pasta cruda!
- E che vorreste senza carta annonaria? Grissini vorreste? - ribatte allegro il "boccia". E spalancata la bocca in una spontanea risata torna a rinsaccarsi nel suo strano giaciglio.
La marcia prosegue nella notte. Or da questo or da quel plotone una voce si leva a dare il "là" ad una canzone. E tutta la compagnia si desta nel canto ed accelera l'andatura.
La stanchezza comincia a farsi sentire un pò in tutti, le cinghiette delle borse tattiche, strigendo forte le spalle, rivelano a noi stessi la non piena corrispondenza del fisico. Ma la volontà di andare avanti è più forte della fatica. Si deve giungere ad una determinata località e vi giungeremo. Si marcia da cinque o sei ore quando il fischietto del comandante sibila nel segnale di "alt". Poi, secca, la sua voce risuona nella notte: "Serrate sotto, non perdere il collegamento, non fumare, silenzio assoluto. Ci attesteremo a mezz'ora di strada da qui".
Si riparte ed a termine dei trenta minuti sostiamo nei pressi di un villaggio, quello ove è stato segnalato il nucleo di partigiani.
Siamo nel recinto di una grande fattoria. La recente trebbiatura, effettuata a cura dei nostri comandi, ha lasciato la sua traccia in un provvidenziale pagliaio che fornisce i giacigli alle membra provate dallo sforzo. Predisposte le solite misure di sicurezza, gli uomini si abbandonano al riposo. Tre ore si sonno saranno più che sufficienti a ritemprare i corpi.
Una pattuglia va in ricognizione al vicino abitato. Si procede a tentoni nelle tenebre, guidati sul nostro cammino dalle macchie bianche dei silo granari. Il bagno involontario in un ruscello giunge propizio anche se sgradito a rinfrescare le idee un pò ottenebrate dal sonno e dalla stanchezza. Giungiamo alle prime abitazioni del paese. Le porte spalancate e le finestre orbe di vetri non ci invitano a sostare, ci interniamo nel dedalo delle luride viuzze traboccanti di immondizie e rifiuti d'ogni genere.
Ad una curva andiamo a sbattere contro la massa di un carro armato. Il mostro dorme il suo ultimo sonno e pare che sghignazzi attraverso il foro della perforante che ne ha squarciata la torretta. Sullo scafo scorgiamo il segno della sua nazionalità: la stella rossa. E' l'unica stella in questa notte senza luce. E naturalmente non brilla.
Anche qui è passata la guerra. Noi stessi, forse, nella rapida corsa tra il Donez ed il Don attraversammo il villaggio. Ma come possiamo dirlo con precisione se questi paesi rurali russi si assomigliano tutti nella loro miserevole urbanistica? Per di più le tenebre non ci consentono nessuna visibilità. Procediamo a tentoni nella ricerca di un segno che riveli la presenza di uomini.
L'abbaiar di un cane ci guida verso una casa che, per aver tutte le imposte chiuse, ci appare abitata. Battiamo ai cristalli di una finestra. Ci risponde prima l'accendersi di un lume, poi, tremante, una voce di donna. Chiediamo dello "stàrasta" - il capo villaggio - La donna, evidentemente in preda a chi sa qual terrore, non sa darci precise indicazioni. Sembra, col suo tremulo mormorio, implorare pietà. E non sa, la poveretta, che le nostre intenzioni nei suoi riguardi sono le più pacifiche.
Ma tanta è la di lei paura che non riusciamo a convincerla. Forse questa donna, cresciuta in un regime di terrore, rimembra altri soldati che in lontane notti batterono alle case dei poveri contadini e portarono loro morte e distruzione.
Finalmente, da una capanna vicina, sbuca un vecchietto tutto imbacuccato in una specie di veste da camera che lo copre fino ai piedi. Ha udita la nostra richiesta e ci farà da guida fino all'abitazione dello "starasta" alla quale giungiamo in pochi minuti.
Il capo del misero villaggio è un ometto insignificante che si profonde in complimenti e gentilezze. Che sia sincero non si può affermare, giacchè nei suoi occhietti di faina, unica cosa viva sulla sua faccia priva di espressione, è una strana luce che in una notte assai lontana vedemmo brillare nelle pupille di uno sciacallo affamato e pronto a mordere chiunque lo avvicinasse.
Sincerissimo nella sua gentilezza, lo "stàrasta" ci fornisce le utili informazioni richiestegli. I partigiani, dopo aver prelevato a mano armata i viveri loro occorrenti e minacciati gli abitanti, si sono diretti in una data località, a cinque ore di marcia. Ciò significa che la nostra fatica è appena all'inizio, giacchè giovando battere il ferro quando è caldo, occorrerà inseguire la preda.
Dino Corsi