Il Telegrafo del 29 settembre 1942
poesia della prima linea
Fronte Russo, settembre
Da poco è calato il sole. E le ultime luci del giorno, quelle rossastre come fiammelle di un falò prossimo all'estinzione, non penetrano nel boschetto di querci e pini, che da alcune ore è sicuro ricetto alle nostre armi, agli automezzi ed agli uomini del reparto, in attesa della notte per attraversare la zona scoperta e tornare alla base dlpo aver assolto il suo compito oltre le nostre linee avanzate.
Sul groviglio dei rami carichi di ghiande, si aprono gli ombrelloni dei pini; parasole immensi il giorno, verde coltre la notte. Si va già a tentono nell'oscurità intorno alle macchine, sottovoce - che ogni rumore inutile è abolito in zona di operazione - ci si chiama, ci si conta, si ricevono e si danno gli ordini per la partenza imminente, che invece non sarà tale, giacchè, mentre gli autieri stanno per dare il colpo di manovella al motore, giunge l'ordine: la compagnia anticarro subito in linea.
La linea è là, appena dieci metri fuori dal boschetto. Davanti al verde degli alberi un tratto di pianura coltivata a grano. Qui ha mietuto la mitraglia, ha trebbiato il cannone. Agricoltori dilettanti, i mitraglieri e gli artiglieri non hanno portata a termine l'opera loro; qua e là le spighe sono ancora in piedi, a stento gli esili fili di paglia reggono il prezioso carico di grano ed inchinano verso terra, ove già giacciono spighe, spighe e spighe...E nella terra, impastata col sangue, par lievitare il pane sacro dell'eroismo.
Oltre la radura, la quota tenuta dai russi, la linea avversaria colla minacciosa quanto vana azione dei mortai e delle armi automatiche.
"La compagnia anticarro in linea" può voler significare la presenza di mezzi corazzati avversari nel settore, come può limitarsi ad un'azione ravvicinata di sbarramento di quei gioielli della tecnica che sono i nostri cannoncini da 47/32. Oppure la vigile, silente attesa di tante lunghe ore.
In religioso silenzio i pezzi vengono calati dagli automezzi, trainati a braccia oltre il limite del bosco e messi in postazione. Nell'oscurità, che la notte è ormai riuscita a disperdere le ultime luci anche ove non ha l'ausilio della vegetazione, mentre i serventi approntano le trincerette ed i ricoveri, gli uomini addetti al munizionamento scavano le fosse per le riservette dei proietti. In mezz'ora di alacre, ordinato lavoro di piccozzino e badilotto tutto è pronto all'offesa e alla difesa. Possiamo riprender fiato e guardarci intorno.
I legionari sono stati inghiottiti dal terreno. Solo le vedette seminascoste in mezzo al grano vivono ormai sulla terra; gli altri sono sotto, già avvolti nel pastrano, con per cuscino la fedele borsa tattica, contenente l'amica gavetta, le preziose bombe a mano, un pezzo di pagnotta, dieci volte sbocconcellata, e la fotografia della donna lontana. La trincea è stretta, ma tutti si sono accomodati alla meglio. E' questa la grande prerogativa del fante: dormire dove, come e quando può.
Vicinissima a noi, a destra, è la postazione di un'arma pesante; a sinistra veglia un nucleo fucilieri. Non riusciamo a prendere sonno ed attacchiamo conversazione coi camerati dell'Esercito. Sono qui da un mese. E da trenta giorni questi ragazzi passano la notte così, rintanati in un buco che talvolta è un pozzo di fango, sempre all'erta, instancabilmente pronti a far parlare le armi.
Questi ragazzi ci raccontano le loro avventure. Tutti hanno qualcosa di interessante da narrare, oguno di essi ha per un mese continuo vedutala morte, e ciò che conta, ha fregata la morte.
Ci offrono una sigaretta, la prima che vediamo da quarantotto ore. In prima linea non si può fumare, non si deve fumare, perchè il puntino di fuoco può scatenare una tempesta di fiamme. Ma coprendoci ben ben la testa col pastrano si fa una fumatina in barba agli osservatori nemici e si ha il vantaggio, a parte la noia del fumo negli occhi, di un tepore assai gradevole in queste nottate non eccessivamente estive.
Come tutte le cose, anche le chiacchiere stancano. Le palpebre si abbassano, i corpi stanchi reclamano il riposo. Si dorme. Cinque, dieci minuti, un quarto d'ora al massimo e poi la brusca sveglia fatta di raffiche di mitraglia, di scoppi laceranti e vampate di fuoco che colpiscono gli occhi assonnati.
- Dio li stramaledica! - borbotta una voce - neanche stanotte che è domenica ci fanno riposare!
Tutti in piedi: tutti alle armi. E poi l'incrociarsi delle domande e delle risposte: "Cosa avviene?". "C'è ordine di far fuoco?" ... "Una pattuglia è stata avvistata davanti al caposaldo X...", "i mitraglieri stanno lavorandoli", "loro tirano coi mortai"...Mezz'ora di allarme, trenta minuti di tensione, infine la calma.
- Buonanotte - sussurra un fante.
- Buona - fanno eco cento voci.
Per un pò nelle trincee è un bisbigliar di commenti, e quando il silenzio torna completo ad invitare al sonno vien subito rotto dal lontano caratteristico brusio degli aerei. Son due apparecchi che si avvicinano. Bombardieri russi. E' inconfondibile il rumore dei motori che parte da un minimo quasi impercettibile e cresce, scresce come se i cilindri volessero liberarsi dal loro involucro, per poi affievolirsi sino a pressochè scomparire per riprendere ancora il tormentoso crescendo.
Ora volano sulle nostre teste. Lanciano razzi. Cercano forse di individuare la posizione. Ci rassegniamo a ricevere il non gradito avviso di spezzoni e, più che possiamo, ci facciamo piccini nell'interno dei ricoveri. La testa coperta col pastrano dà un senso di sicurezza. Sciocchezze queste, è vero, ma è pur vero che è così: non vedere il pericolo par di poterlo evitare con maggiore facilità.
Gli aerei compiono giri su giri, lanciano ancora i loro lucenti esploratori, ma non si decidono a sganciare. Li sentiamo vicini - magari saranno a 5000 di quota, ma si potrebbe giurare di averli a dieci metri - sempre più vicini e pensiamo: bombe o spezzoni? qui o altrove?
Abbiamo appena formulati questi pensieri che un nuovo rumore giunge allo nostre orecchie. E' come una musica dolce che domina il discordato battere dei motori russi. Mille miglia lontana si riconoscerebbe la canzone gioiosa della nostra caccia sia diurna che notturna. Gli aerei nemici non fanno più paura: sta arrivando il guastafeste! E corre, corre l'aquilotto azzurro!
Ma dall'alto anche gli uccellacci rossi hanno udita la sinfonia per loro non gradita e virano velocemente e scompaiono nella notte. Il nostro cacciatore li insegue e si perde nella loro scia lontano oltre il Don.
Sarà mezzanotte, forse l'una, comunque qualche ora ci separa dal sorgere del sole. Ne approfittiamo per tornare nella nostra tana, vicino al pezzo, e ci avvogliamo ancora nel pastrano. Ma quant'è difficile prender sonno!
Fa quasi freddo! E quell'uggiolina in fondo allo stomaco deve essere appetito...arretrato. Stiamo appunto pensando se sia o no il caso di addentare il rimasuglio di pane che conserviamo gelosamente da ventiquattro ore, quando una voce ci fa sobbalzare: "Sveglia, sussurra la voce, sveglia; è arrivato il rancio".
Balziamo in piedi e, increduli, ripetiamo a mo' di domanda: "E' arrivato il rancio?"
"Si, ribattè il nostro interlocutore, il rancio. Volevi forse un pranzo servito a tavola?"
Saltiamo dalla tana e corriamo nel boschetto. E' arrivata una carretta e ha portato...quanta roba ha portato! Pane - tante, tante belle pagnotte, belle, bianche e golnfie come palloncini di neve, profumate di forno - carne, formaggio, cognach e sigarette...Tutta questa grazia di Dio è venuta dalla nostra base fino quassù, per noi...Pare un sogno!
Rapidamente avviene la distribuzione. Il buio pesto non impedisce il regolare svolgersi del pranzetto notturno. Per una mezz'ora si lavora di denti, poi si sorseggia il cognacchino, giunto a proposito per riscaldare un pò i corpi, e una sigaretta tanto gradita perchè inattesa e maggiormente inebriante.ù, fumata così di contrabbando, nell'intimità ristretta di dieci centimetri di spazio.
Anche i fanti hanno avuto il rancio. Caldo il loro, perchèp le cucine del Reggimento sono a poche centinaia di metri dalla linea.
Tutti sani, tutti contenti, gli animi disposti ai sogni più rosei, gli uomini tornano ad accucciarsi l'uno accanto all'altro.
In un caposaldo lontano canta la mitraglia. Forse ancora una pattuglia vagante "viene lavorata".
Noi non torniamo riposare. E' il nostro turno d'ispezione. Per un'ora e più andiamo dall'una all'altra arma, discorriamo con questo o con quel legionario di vedetta, ci intratteniamo coi nuclei di mitraglieri e di fucilieri. Il tempo passa così veloce e si giunge presto all'alba.
Rapido come cala alla sera, il sole sorge al mattino. In pochi minuti i bagliori tenui all'orizzonte par si accentuino nel disco infuocato, che va rapidamente prendendo forma e lucentezza.
Ora i primi raggi, sfiorando il margine della radura, lambiscono gli orli delle trincee ed illuminano i volti dei legionari.
Rimaniamo un pò ad ossservare le faccie composte nella sernità di un tranquillo sonno e ci sforziamo ad immaginare i sogni di ognuno. Quello, che se ne sta raggomitolato tra due cassette di munizioni, colle labbra atteggiate ad un sorriso di gioia, ci diceva ieri sera la sua trepida attesa di un figlio, del primo figlio.
Forse a quest'ora, in una lontana casa italiana, da una donna d'Italia è nata la creatura del legionario. Ed egli nel sogno la vede, quale la sua amorosa immaginazione paterna l'ha creata; e le sorride contento...
Un rombo lontano, il miagolio di un grosso calibro e lo scoppio vicino rompono la serenità del mattino.
I nostri 149 prolungati fanno la sveglia ai russi. Una batteria ha aperto il fuoco. Tutta la linea si rianima. I legionari e i fanti aprono gli occhi al sole lucente, sbadigliano, stiracchiano le membra. In tutti è la soddisfazione della nottata trascorsa abbastanza tranquillamente, in tutti la letizia per il dovere compiuto.
Noi ci sorprendiamo a riflettere che quella che da poco è svanita è la terza notte che trascorriamo senza dormire, e maggiormente ci stupiamo nel non risentire alcuna stanchezza fisica.
Alludeva forse il nostro poeta a questa poesia mai scritta della prima linea? O forse egli non conosceva l'armonia di quei versi che tutti i fanti - poeti ignoti - compongono con vena spontanea ed inestinguibile? Non lo sappiamo. Ma nella seconda ipotesi compiangeremmo il caro amico e con lui tutti i rimatori di questo mondo; perchè si può avere la zucca imbottigliata nei classici e contemporanei, si possono aver messe insieme milioni di rime, ma nel secolo che volge non si può esser realmente poetici se non si è sentita la Musa alitar poesia eroica attraverso i cento e mille canti della prima linea.
E, una volta tanto, sentiamo d'esser noi i poeti.
Dino Corsi