La Nazione del 15 maggio 1938.
Da Gondar a l'Ambaciara con il battaglione senese
E l'ora, l'ora tanto attesa giunse sul chiaro del primo mattino.
Finalmente, avanti!Non dormivo nè vegliavo da giorni. Sognavo i miei ragazzi, vivevo per i miei ragazzi.
Si parte! Si parte fra il rombare di macchine che procedono e che seguono. Sono cinque, sono dieci, che importa? Appaiono e scompaiono tra nuvoli di polvere rossa sull'appena tracciato nastro serpeggiante della strada.
Avanti, avanti, senza rimpianto. Una vita si spegne un'altra si riaccende. Speranze nuove l'accompagnano. Fatiche e disagi di un giorno, di mesi e mesi, che temprarono di maschia forza la gioventù guerriera, svaniscono nella febbrile attesa di altri eventi.
Senza alcun rancore e senza nostalgia: addio! Addio mio colle, miei fortini "Rino Daus", "Giovanni Berta", "Antonio Palmieri". Addio. Senza i volti bronzei dei miei soldati, senza il canto toscano di ogni sera, mi siete apparsi come lugubri, piccoli camposanti.
E tu Gondar, che vivesti per sei mesi del dolce idioma senese, che vedesti e sentisti tra le tue strade il passo marziale delle nuove generazioni, tu, che comandasti che le tue terre aspre e sassose si bagnassero del sudore del legionario, ricorda e vivi eterna.
Cantano e urlano i motori. Il bassopiano, racchiuso all'orizzonte da monti rocciosi, si restringe.
Cigolano le macchine, ballano e traballano. Una mandria di zebù si pasce di erba secca e stenta. Il sole dardeggia sulle nostre teste. A destra, una leggera foschia vela lo sguardo più oltre. Si lascia la pista per Ifac; per ogni dove deserto e silenzio. Si sale e si scende, si scende e si sale. Monotonia, stanchezza, apatia, sonnolenza. Ecco la prima asperità del terreno. Ringhiare rabbioso di motori, che cedono, che riprendono, che urlano, in un continuo sussurro. Sembra un pianto e un canto.
Si sale leggermente. Di qua e di là quasi a congiungersi, in un continuo susseguirsi, come due sponde, monti e colline. Olivi cinerei e selvatici, vi si inerpicano e salgono a mezza costa. Una macchia grande di verde: sono le palme agili e svettanti. Una macchia più piccola ma frequente di nero: sono le erbe, che in preda al fuoco, nelle notti serene, come fantastiche processioni, scavano un solco lungo nel cuore della montagna.
Una piccola sosta; un milite scende scamiciato. Il casco bianchiccio gli copre la fronte. Fa caldo nel silenzio triste di ogni cosa. Altri militi sonnecchiano sulle macchine assolate e roventi. Volti abbronzati e sporchi di polvere. Si apre qualche scatoletta, si divora qualche pagnotta. Silenzio: mezzogiorno deve essere trascorso da poco.
Nella mia cabina racchiuso, guardo e sogno.
- Fra un'ora giungeremo - mi dice l'autista. Non gli rispondo. Il mio pensiero vaga lontano.
Ancora avanti!Ad ogni svolta, il tracciato sembra finire, non si vedono che sassi, non si ode che il brontolare dei motori. Uno sciacallo attraversa ora la strada con la grossa coda tra le gambe. Unico essere vivente. Si sale e si scende. Ma più si sale attraverso guadi, attraverso l'ombra degli alti alberi. Sono spossato e triste. Quaranta chilometri: quattro ore di lungo estenuante cammino. Mi assopisco. L'urlo lacerante del "34" mi ridesta; sembra un cavallo furioso che si impenni, che si rotoli, che tutto schianti e rovini per l'erta sempre più difficile.
Ad una svolta, dieci svolte si susseguono. Da una parte il monte, dall'altra il precipizio. Corrono le ruote sul ciglio, un nonnulla e il disastro sarebbe irreparabile. Ultima svolta! Ancora dieci metri, il piazzale. La fine della strada.
Vocio confuso di militi. Strette di mano, saluti che si rincorrono, che si perdono in lontananza. Finalmente! La grande ora sta per terminare.
Vedo i miei ragazzi, ipù abbronzati ancora, sorridenti, venirmi incontro. Nessuno mi attendeva. E' una sorpresa per tutti. La mia gamba appena mi sorregge: qualcuno mi aiuta.
Il piazzale! Un largo sterrato in declivio, ombreggiato all'intorno da alberi d'alto fusto. Per ogni dove sacchi di viveri, botti di vino, barili di olio che attendono di essere portati a destinazione. Fra poco cento muletti abissini, agili e piccoli, saliranno il duro sentiero con la più dura soma.
Il tenente Pepi mi corre incontro e mi abbraccia. Ci guardiamo commossi. Più in là il maggiore Mariotti mi stringe la mano.
Presto, presto che bisogna partire! Un muletto sellato per me, uno per il Comandante, una scorta di nazionali e di ascari e via, su per l'erta scoscesa. Gli altri, i militi e l'ufficiale comandato, rimarranno ancor qui, al laborioso e duro lavoro, fino a quando la notte non scenderà a nascondere ogni cosa.
In silenzio, lentamente, si ascende. Una gola profonda e sassosa ci guida. Su, in alto, fra l'ardente vegetazione, vi sono i nostri.
- E di ribelli?
- Nemmeno l'ombra - mi sento rispondere - Sono un pò come l'araba fenice; che ci siano ognuno lo dice, dove sian nessuno lo sa.
Il sole ora volge al tramonto. Siamo sbucati su di un piano leggermente ondulato a sud. I muletti sono stanchi, noi molto più di loro.
Mi riposo, ci riposiamo.
UN paesaggio dantesco danza ai miei occhi. Vicino, lontano, più lontano, non vedo che monti ed ambe. Siamo a circa tremila metri e l'aria frizzante della sera risolleva e vivifica il mio animo depresso.
Avanti, ancora avanti! Il mio sguardo non è teso ora che verso un punto. Laggiù a qualche chilometro, su una groppa macchiata leggermente da oliveti, il mio bel battaglione lavora e vigila, soffre e gioisce entro le mura di un forte che mi appare, nella sera, in tutta la sua vastità.
E' una fortezza a due piani. L'ultimo raggio sta per morire.
Nel cielo appaiono due nubi bianche. Terra e cielo io non li ho sentiti mai così vicini. Solo e piccolo in così grande immensità.
Un ultimo sforzo del muletto sul duro selciato. Una voce lontana. Un pigolìo sommesso di uccelli. L'ombra del bosco. Ambaciara e il forte mi stanno davanti! L'ora, la grande ora, si è avverata.
Bruno Minucci