Il Telegrafo del 23 maggio 1941
Dalla Dalmazia redenta
Zarnovic (Dalmazia), Maggio
In questo paese, che nasce in una valle irrorata da acque sorgive e decorata dal verde dei lussureggianti frutteti e si estende, attraverso pinete, abetaie e tratti rocciosi su per i monti che fan da sentinella all'Adriatico, i primi legionari che giunsero furono le Camicie nere senesi della "97.a mitraglieri d'assalto".
Giunsero in un chiaro pomeriggio di questa Primavera entusiasmante, dopo una marcia lungo la litoranea che, da Spalato, porta al limite estremo di questa martoriata regione dalmata, oggi redenta in virtù della volontà fattiva, audace e guerriera dell'Italia di Mussolini.
In testa al Reparto - due centurie di uomini già provati al fuoco e ad ogni genere di fatiche e sacrifici - la "fiamma di combattimento", il nero drappo simbolo di tutti gli ardimenti, sventolava illuminata dalla luce del sole ed animata dal fuoco dei legionari, i quali, faccie rudi ed abbronzate, petti quadrati e portamento quanto mai fiero, percorsero le vie del villaggio al canto degli inni della Patria.
I nativi, le genti del luogo che due decenni avevano udito il peso della inumana schiavitù loro imposta dai serbi, guardavano con sorpresa, qualcuno con timore, al giungere delle Camicie nere. Si scoprivano tutte le teste, con gesto automatico; poche destre si sollevavano nel saluto romano e rarissime furono le bocche schiusesi in un detto di benvenuto.
Troppo, e troppo a lungo avevano sofferto i dalmati; troppe volte , dalla dominazione napoleonica al giogo di Belgrado - per non riferirsi che all'epoca moderna - la terra che fu madre a Niccolò Tommaseo aveva conosciuti e subiti i dolorosi sacrifici di questa o di quella conquista; troppo, oltre ogni umano limite di sopportazione, i dalmati avevano conosciuto il peso della schiavitù e sentiti i morsi della fame e vissuto nelle ristrettezze della miseria per poter gioire ad una nuova occupazione, per potersi entusiasmare all'arrivo di quelli che erano stati loro dipinti come i "barbari fascisti", quali esponenti e rappresentanti di un Regime di oppressione e tirannia.
Ma sono bastati pochi giorni, pochissimi giorni, a vincere ogni riluttanza, a far cscomparire ogni timore. L'Italia, ieri paventata e temuta e da taluni odiata, in virtù di una vile subdola propaganda antifascista, è oggi la grande Patria amata venerata ed invocata dalle genti dalmate, che, sotto il segno del Littorio, rinascono a nuova vita e, dopo secoli di schiavitù, assaporano la gioia che da all'uomo la libertà.
Quando, al loro giungere a Zarnovic, i legionari senesi della "97.a Mitraglieri d'Assalto" issarono il Tricolore tra i pini che fan verdi le pendici dei monti, quando la tromba, che in un'epica giornata aveva suonato il segnale di "aprire il fuoco" echeggiò negli squilli di "attenti", la popolazione, fredda e riservata, non capì il significato del rito sublime che si stava compiendo.
Troppe bandiere, senza diritto, avevano sventolato senza gloria sotto il cielo della Dalmazia. E gli uomini non credevano più. Non potevano credere. Avevano il diritto di non credere.
Ma oggi - e son trascorsi così pochi giorni che si contano sulle dita delle mani - quando il trombettiere senese da il segnale dell'alza bandiera, non solo gli occhi dei legionari brillano, ma anche quelli dei nativi luccicano di gioia e di riconoscenza.
Perchè l'Italia ha ormai già accolti sul suo seno materno i dalmati, perchè i dalmati hanno già compreso di avere infine trovata, anzi ritrovata, quella che loro - malgrado la inevitabile e, se si vuole, logica influenza croata sulla lingua - hanno continuato a chiamare "mamma".
Mamma Italia. Grande, divina mamma che, nel suo nome benedetto, affratella oggi redenti e rendentori e si fa amare, come non mai, da chi fu sempre Suo figlio e da chi Suo figlio è tornato ad essere.
Anche in Dalmazia, nella loro vergognosa fuga sotto il pungolo delle baionette italiane, sono passati i serbi. E, dove sono passati i serbi, è miseria, fame.
Noi, per ragioni di servizio, abbiamo avuto luogo, in questi ultimi giorni, di percorrere in lungo e in largo le zone affidate al presidio dell'89.o Btg. CC.NN. di Volterra, dal quale, presentemente, dipende la 97.a Mitraglieri di Siena.
Abbiamo, al comando di una pattuglia di legionari, attraversata la valle e ci siamo inerpicati su per il monte, posando il piede su sentieri per capre e, talvolta, raccomandando l'anima a Dio sull'orlo di un precipizio. Ovunque lo stato di abbandono che caratterizza questa regione di martirio: ovunque la miseria, dovuta all'incuria del passato governo, e la fame - la fame nella più terribile ed angosciosa delle sue espressioni - cagionata dal passaggio dell'esercito serbo in ritirata, che tutto ha predato, tutto ha rubato.
In una località montana - agglomerato di catapecchie annerite e semidiroccate, covi di immondi insetti e sporcizia - ci si è fatto incontro il capo della misera comunità. Uno spilungone di quasi due metri di altezza e secco, allampanato, coi segni del denutrimento sul volto. Salutando a vecchio modo, togliendosi cioè il logoro cappello, ha detto una frase di benvenuto in cattivo ma comprensibile italiano: "Bene arrivato taliano fascisto, salute soldata di Mussolino".
Subito dopo, in un linguaggio dove il croato dei montanari si intramezzava alla nostra lingua ed al più puro dialetto veneto, ci ha spiegato che lui, combattente della Grande Guerra, già prigioniero in Italia, serba ed ha serbato buon ricordo di quella che oggi è la sua nuova Patria.
Abbiamo approfittato dell'occasionale interprete per rivolgere due parole buone ai derelitti che ci erano vicini. Uomini vinti e fiaccati da una vita di stenti e dalla continua tinuncia ad ogni libertà; donne dagli sguardi stanchi e dai volti lividi; bambini - quanti, quanti bambini, quante creature di Dio che l'Italia avrà figli e redimerà, e crescerà uomini! - macilenti, laceri, scalzi.
Tanta miseria, tanta povertà da far piangere, tanto umano, ingiusto male da far maledire i falsi principi democratici per cui, ed in cui, l'uno si ingrassa e l'altro muore di stenti.
A lungo - l'interprete traduceva le nostre parole - abbiamo parlato dell'Italia, del Duce e del Fascismo. abbiamo detto quello che in Italia, sotto la guida del Duce, ha compiuto il Fascismo. Valorizzazione dei lavoratori, benessere del Popolo, assistenza, maternità ed infanzia, dopolavoro, assegni familiari, Carta del Lavoro, bonifiche, scuole, sport, case popolari, latifondo siciliano (siamo arrivati anche a questo), graduale e col tempo definitiva abolizione delle distanze sociali, battaglia del grano, corporativismo...
E mentre noi parlavamo - nella perorazione della nostra attività di conferenzieri - ed il vecchio soldato austriaco traduceva, potevamo leggere negli occhi degli ascoltatori la sorpresa, dapprima, e poi la speranza; una speranza che sarà ben presto realtà.
Terminato il nostro dire, una voce di donna si levò a parlare: in croato. L'interprete tradusse le parole di una madre dalmata. Sono le parole che noi poniamo a chiusura di questo nostro pezzo, sono parole che i lettori dovranno ben meditare per comprendere come e quanto le genti sane della Dalmazia si sian rese conto della missione che l'Italia ha iniziata e porterà a compimento nella terra che fu ed è tornata sua.
La donna - madre di una nidiata di bimbi - disse: "Se il Signore, tanto buono, vi farà restare qui; se il Signore, tanto grande, farà comandare Mussolini; se il Signore, che ama gli umili, ci farà italiani, noi saremo felici e dimenticheremo le sofferenze del passato. Viva l'Italia!"
Dino Corsi